All’arrivo della pandemia le Università australiane sono entrate in crisi per l’assenza di studenti stranieri sui quali basavano la maggior parte delle proprie entrate. Il settore ha risposto tagliando circa 17mila posti di lavoro. Pubblichiamo le riflessioni sul mondo dell’Università australiana che ci ha inviato una nostra lettrice con una lunga esperienza all’interno dell’accademia da queste parti.
Questa è una riflessione molto personale di un essere umano che i Sicilani chiamerebbero “grande”…di età.
Quindi, ha tutto il sapore di altre età e altre ragioni per cui si lasciò l’Italia.
Io faccio parte di un’epoca in cui un professore Universitario poteva dire a una studentessa che invece di essere lì all’esame avrebbe dovuto essere ai fornelli. E a quel tempo nessuno questionava.
Faccio parte di un’epoca di anni e anni di precariato. Per cui l’Australia mi parve l’Isola non Trovata di Guccini. Mi aspettavo che avrei ricevuto rispetto in quanto persona onesta e donna.
E opportunità di carriera. Tutte cose che riuscii a trovare…almeno fino all’arrivo del CoViD
Credo che come me, altre persone, altre donne anche molto piuù giovani, siano fuggite dall’Italia e da un sistema di nepotismi e preferenze, verso un luogo dove un posto in Accademia lo avresti ottenuto per merito.
Fino all’arrivo del CoViD. Quando la chiusura dei confini e il crollo delle iscrizioni da parte di studenti stranieri ha messo in luce le debolezze del Sistema Universitario Australiano.
Sì, perché con la pandemia è diventato evidente che lo stipendio degli accademici in Australia è fondamentalmente pagato dagli studenti “internazionali”.
In passato infatti, in periodi di vacche grasse, le Università hanno assunto ricercatori e insegnanti, spesso stranieri, perché qui mancava “la materia prima”. Stranieri che, come me, non avevano però familiarità con la cultura accademica Australiana.
Ho notato infatti che noi Italiani siamo abituati a fare sempre troppe domande, a notare le criticità, forse siamo anche un po’ pessimisti (per via delle nostre esperienze), più che proattivi. Voglio credere che ci piaccia la gente che pensa.
Tuttavia, ora che le Università invece corrono a risparmiare sui costi, ossia tagliano posti di lavoro e posizioni di professore, l’amara scoperta è che anche l’accademia qui in Australia non è molto diversa da quella italiana: con nepotismi e preferenze.
Sembra così che coloro che sono nati al di fuori di questa grande isola, che non ne conoscono le regole, da questi tagli siano colpiti di più. E non parlo per me, visto che in fondo io ero già in età da pensione, ma di ciò che vedo sta accadendo a tante colleghe nemmeno cinquantenni, forse perché ritenute troppo critiche. Non parlo solo di cittadini italiani, ma anche Inglesi, Russi, Indiani, Francesi. E mi viene il dubbio che ciò stia accadendo per il nostro spiccato senso critico nei confronti del sistema universitario.
In particolare contro un Università che qui è come una azienda pienamente inserita nel sistema economico capitalista, dove l’istruzione diventa una merce. E talvolta anche senza essere davvero capace di restituire value for money.
Anche perché, tagliando professori altamente qualificati per risparmiare, come stanno facendo ora, offrono agli studenti, o farei meglio a chiamarli “clienti”, un servizio molto peggiorato.
Situazioni come questa ci fanno dunque tornare ad apprezzare il fatto che l’educazione in Italia sia più alla portata di tutti e che gli stipendi di professori e ricercatori siano pagati dallo Stato (leggi: contribuenti). Se non altro perché almeno così in Italia gli studenti non sono trattati come mucche da mungere, ma come persone alla ricerca di una migliore istruzione.
Se le Università Italiane non hanno la valutazione che meriterebbero è per via del fatto che le lezioni sono spesso in Italiano.
Per tutto questo, anche alla luce di quanto accaduto con la pandemia, alle giovani Italiane di oggi che vorrebbero provare una carriera accademica il mio consiglio è di restare in Europa e lasciare perdere l’Australia.
Credetemi: il sistema è patriarcale anche qui….solo che camuffato da parole come “equity, diversity and inclusion”.
Silvia Frisia
(Photo by Nathan Dumlao on Unsplash)