Inserita a sorpresa nel budget dello scorso anno dal dinamico duo Abbott-Hockey, la decisione di tassare al 32,5% ogni dollaro guadagnato dai possessori di Working Holiday Visa, anche al di sotto della soglia esentasse dei $18.200 all’anno, aveva scatenato molte preoccupazioni.
Sicuramente non il putiferio che una tassa arbitraria come la cosiddetta ‘backpacker tax’ su persone senza diritto di voto e quindi senza diritto di replica avrebbe dovuto suscitare, ma comunque un bel polverone.
A prendere le difese dei backpacker erano intervenuti immediatamente gli agricoltori, per i quali i Working Holiday Makers costituiscono una fetta consistente della manodopera necessaria per il lavoro nei campi (il 25% a livello nazionale con punte dell’85% nel Territorio del Nord), e i Nazionali che tradizionalmente li rappresentano. E ora, come vero vincitore delle elezioni federali dello scorso luglio, il partito di Barnaby Joyce ha il peso giusto per farsi ascoltare dai compagni liberali della Coalizione.
Il ministro del Tesoro Scott Morrison ha annunciato il 27 settembre un ridimensionamento della ‘backpacker tax’, non più il 32,5% a partire dal primo dollaro guadagnato, ma ripristino della fascia esentasse e 19% di tassazione fino ai $37.000, come avviene per i residenti. Ad un compromesso: il governo federale tratterrà ben il 95% della superannuation accumulata dai possessori di un WHV al loro rientro a casa, in pratica un’altra tassa celata, e aumenterà di 5 dollari la tassa di uscita per i turisti in visita in Australia. Una mossa che ha fatto infuriare le associazioni di categoria.
Tutto sommato, però, per i backpacker, che si vedranno anche il costo del visto Working Holiday diminuito di $50, è una vittoria. La dimostrazione che c’è tutto un settore dell’economia australiana, quello ortofrutticolo, che non vive senza il loro lavoro. E sappiamo che non è l’unico. Senza “migranti temporanei” anche l’industria della ristorazione, l’edilizia e molte fabbriche di confezionamento di prodotti alimentari subirebbero un duro colpo.
È giunta quindi l’ora di affrontare seriamente anche il problema dello sfruttamento a cui questi lavoratori vanno incontro, molto spesso proprio per il fatto di essere sottoposti a ricatti legati alle condizioni del loro visto.
Giada, mentre lavorava nelle farm per rinnovare il Working Holiday Visa, si è vista ricattare da un contractor che le ha imposto di accettare una paga dimezzata rispetto al minimo salariale, pena il non vedersi firmati gli 88 giorni necessari. Filippo, con uno student visa, lavorava più delle 20 ore settimanali previste per mantenersi ed è stato minacciato dal datore di lavoro di essere denunciato all’immigrazione se non avesse effettuato una prova di lavoro gratis nel suo ristorante. Cecilia, legata al visto studente del proprio compagno, lavora full time ma viene pagata solo per metà delle ore. Le storie di abusi sono tantissime.
La revisione della legge, che ha comunque riequilibrato la pressione fiscale su una fascia di lavoratori molto debole dal punto di vista dei diritti, porterà nuove risorse nelle casse dello Stato. Come queste risorse saranno utilizzate è la domanda che oggi dovremmo porci. Quali saranno i servizi di cui, conseguentemente al pagamento delle tasse, i lavoratori potranno usufruire? Forse sarebbe utile e costruttivo se una parte di esse andassero a quegli organismi come il Fair Work Ombudsman per potenziare il controllo sullo sfruttamento nel mondo del lavoro che colpisce i lavoratori temporanei, per creare uno stato sociale più equo, oppure, garantisse almeno la copertura sanitaria del Medicare per tutta la durata del visto di queste tipologie di soggetti, senza costringerli a spendere ulteriormente i loro soldi nel sistema delle assicurazioni sanitarie private.
Margherita Angelucci
Luca M. Esposito