Chi ha fallito? Un anno e mezzo di pandemia dopo, dagli occhi di un migrante

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Chi affronta la vita di ogni giorno da un’altra parte del mondo sa cosa significa sentirsi solo. Succede di solito in quei rari momenti in cui ci si ferma, inevitabili pause dalle mille cose da fare ogni giorno. Lavorare, ancora lavorare, affrontare piccoli e grandi imprevisti o inciampi burocratici più o meno inaspettati. In questa frenetica quotidianità in cui ogni nuovo passo è in salita, in questo percorso tra precarietà lavorativa e incertezze sul futuro, le proprie emozioni vengono trascurate e il proprio benessere una questione sempre posticipata. Quando infine ci si ferma a rilfettere, uno dei primi pensieri che esplodono è la percezione del fallimento. Chiunque abbia vissuto un periodo abbastanza lungo all’estero conosce questa sensazione di fallimento che periodicamente riaffiora, alimentata dal contrasto tra le aspettative attribuite alla propria esperienza migratoria e la realtà di tutti i giorni, tra il proprio orgoglio e una precarietà che sembra insuperabile.

Un anno e mezzo di pandemia ha esacerbato questa ingombrante sensazione di fallimento. A Melbourne abbiamo appena affrontato il quarto lockdown rendendoci conto di quanto in questi lunghi mesi, immersi nelle necessità impellenti di resistere e trovare soluzioni ai bisogni primari giorno dopo giorno, si siano accumulate in molti di noi questioni irrisolte, ansie e malesseri che violentemente si ripresentano nella realizzazione della propria impotenza di fronte all’evolversi imprevedibile delle circostanze. Invece di condividere le nostre preoccupazioni cercando una comunità, invece di ribellarci alla precarietà che ci rende così vulnerabili, affrontiamo, isolandoci, la pressante idea del fallimento. E in questo ci sentiamo soli, invisibili alle istituzioni del nostro paese, esclusi e lontani da una rete sociale, ignorati dalle istituzioni del paese che ci ospita e che ci permette di rimanere a patto di servire silenziosamente la sua economia, senza poter richiedere alcun supporto, protezione, considerazione.

Noi la pensiamo diversamente: in un anno e mezzo di pandemia ad aver fallito sono i governi degli stati democratici, resisi drammaticamente conto dell’inadeguatezza degli strumenti di welfare rimasti disponibili. Inadeguatezza conseguente a un trentennio di politiche neoliberiste che hanno minato alla base i diritti considerati fino ad oggi imprescindibili: salute, eguaglianza, giustizia sociale, dignità. Soprattutto in Australia, dove gli effetti sanitari della pandemia sono stati decisamente limitati, si può analizzare in tutta la sua devastazione l’effetto sociale di questa progressiva erosione dei diritti, l’impatto insostenibile sui più vulnerabili, l’aumento delle diseguaglianze, gli effetti psicologici su moltissime persone, l’incapacità delle istituzioni e delle politiche sociali di individuare e agire a supporto delle nuove e sempre più diffuse debolezze.

Il populismo ha così agito come palliativo per l’impotenza palese dei governi: l’appello fatto ai migranti temporanei a lasciare il paese non fu una scellerata esclamazione ma una strategia calcolata. Lo stesso calcolo che ha portato negli ultimi mesi a derogare temporaneamente al limite di 20 ore lavorative per gli studenti internazionali, che ha creato nuovi meccanismi di visti temporanei legati alle circostanze della pandemia, all’introduzione da parte del Governo Federale di un contributo settimanale fino a un massimo di $500 dollari per coloro che non hanno un visto permanente e infine un pacchetto del Governo del Victoria per garantire la sussitenza delle fasce più vulnerabili con visti temporanei. Nello stesso tempo è stato drammaticamente indurito il trattamento dei richiedenti asilo, rendendo potenzialmente indefinito il limite della loro detenzione. Invece di provare a rimediare agli effetti sociali prorompenti causati da anni di politiche neoliberiste, queste iniziative dimostrano la miope volontà di continuare su questa strada, aumentando la precarietà, soccorrendo a un passo dal baratro le fasce più vulnerabili della società, alimentandone la sottomissione a un sistema che persegue l’aumento delle diseguaglianze. Invece di affrontare l’inadeguatezza del concetto nazionalistico di cittadinanza, peraltro palesemente distorto dall’incapacità nella gestione della crisi sanitaria; piuttosto di rivedere le politiche sociali e di creare meccanismi di supporto di lungo termine e percorsi migratori più certi, la politica e le istituzioni fuggono, immedesimandosi in un presente complusivamente mediatico.

Presente in cui sempre più persone soffrono, le distanze sociali aumentano, l’individualismo si impone come scelta finale in un generale si salvi chi può. E’ giusto che chi può difenda i propri interessi, che chi può alzare la voce per accrescere i propri vantaggi e profitti lo faccia, mentre chi non lo fa è semplicemente inadeguato e deve predisporsi ad una vita di rinunce, intramezzata da episodi di frustrazione e violenza, giustificabili effetti collaterali dello smantellamento pianificato delle politiche sociali. Sentire dire a governi che in un anno e mezzo hanno ignorato gli invisibili senza diritti che nessuno deve essere lasciato indietro non è una conquista o un sollievo, ma una pugnalata di ipocrisia a lacerare una ferita aperta.

Come sostenere allora chi rimane indietro, come superare questa contorta percezione del fallimento? La strada è la condivisione attraverso una comunità attiva, alimentando una rete sociale di supporto quanto mai fondamentale per dare voce a chi non ha voce e per affermare un’impostazione universale dei diritti contro un loro uso parziale e contrattualistico.

Per questo noi volontari di Nomit abbiamo riattivato i contatti con le persone che sono state coinvolte nel progetto comunitario di sostegno RceCovid19, rimanendo pesantemente colpiti di quanto profondo sia stato l’impatto di un lockdown di appena due settimane su situazioni già precarie e provate da mesi di instabilità. Per tutto questo abbiamo ascoltato e dato voce alle necessità delle persone come noi, migranti senza diritti, precari senza certezze, nomadi costretti all’immobilità, organizzando un Action Group cui hanno partecipato un’esperta di counselling che racconta di crescenti disturbi di ansia e depressione, un rappresentante delle istituzioni predisposto ad ascoltare e dare voce ai nostri problemi, un accademico che denuncia l’inadeguatezza delle istituzioni nel rappresentare la nuova mobilità, un membro della prima migrazione che chiede più sostegno nell’alimentare la comunità, un giornalista che tratta quotidianamente le condizioni delle nuove generazioni di migranti in un mondo che li ignora.

Mentre i cittadini guardano dall’altra parte, rapiti dai riflessi dei loro politici che rimbalzano da uno schermo all’altro difendendo interessi parziali, scaricando la colpa della loro inadeguatezza, tacendo delle diseguaglianze di cui la loro indifferenza è prima responsabile, noi meteci occupiamo simbolicamente l’Agorà, lasciata desolatamente vuota, nel cui silenzio echeggiano proclami quotidiani incuranti dei resti di diritti, politiche sociali e piani di spesa pubblica, abbandonati come rifiuti ingombranti.

 

Enrico Moscon

 

(Photo by Gabriela Gomez on Unsplash)