Dare voce alle donne emigrate

femminismo

Negli ultimi anni, il termine “femminista” è tornato ad essere utilizzato sempre più spesso, diventando “di moda” sulle t-shirt vendute da fashion blogger di fama internazionale, argomento di Ted Talk, articoli, libri e discorsi alle Nazioni unite. Al punto che si comincia a parlare di una terza ondata femminista.

Una sorta di fenice che muore e rinasce dalle sue ceneri (stando ad una pittoresca immagine dell’accademica Heather Brunskell-Evans), il femminismo storicamente si è sviluppato ad ondate, la prima coincisa con le suffragette e la campagna per il diritto di voto, in Australia conquistato prima del resto del mondo (Nuova Zelanda esclusa) nonostante una vittoria parziale dal momento che le donne aborigene hanno potuto esprimersi solo nel 1962. Il secondo periodo più attivo, gli anni in cui le femministe marciavano per le strade chiedendo (e ottenendo) cambiamenti importantissimi per la vita quotidiana delle donne (sdoganando l’uso degli anticoncezionali, per esempio) furono i decenni tra il 1960 e il 1980. Un periodo di attivismo fondamentale per la lotta alla violenza domestica e la conseguente creazione di servizi innovativi per le vittime.

Oggi, per Anna Moo, che ebbe un ruolo fondamentale a Melbourne nell’attuazione di programmi per le donne migranti, il femminismo è ancora fondamentale “perché le pari opportunità non sono ancora state davvero raggiunte”. “Le giovani – dice Moo – devono ‘coinvolgersi’, tornare attive, in particolare in un momento come quello attuale, che tende verso un approccio conservatore”. Non si deve necessariamente aspirare a raggiungere lo stesso livello degli uomini ma piuttosto farsi promotrice di innovazione e cambiamento. “Il coinvolgimento è molto importante; le donne in genere sono quelle che intervengono e gli uomini poi le raggiungono”, sorride Moo. Così è stato per la lotta alla violenza domestica, nata come istanza femminista e poi, grazie al lobbying, alla resistenza e al coraggio delle donne, è arrivata ad essere un problema sotto la lente dei legislatori e dei governi.

Proprio per il lavoro svolto in questo settore, il nome di Anna (nata Polizzotto), lo scorso otto marzo, è stato inserito nel Women’s Roll of Honour, un riconoscimento che va a tutte le donne che si sono distinte per il loro contributo alla società del Victoria. In un ottimo italiano, Anna ci racconta dell’importanza di programmi rivolti alle donne emigrate che ancora oggi sono attivi e rimangono punti di riferimento fondamentali. Non solo, Anna è stata determinante nell’incrementare la rappresentazione delle donne in comitati decisionali nei servizi dedicati alle comunità multiculturali.

Nata a Palermo da padre siciliano e madre di Salsomaggiore Terme, Anna ha vissuto la giovinezza tra Italia e Africa, prima di emigrare nel 1955 con la famiglia in Australia. Fin da giovane ha avuto una vocazione per la giustizia sociale e la sua carriera si è incentrata sul dare voce e opportunità alle donne. Dopo la laurea, la giovane inizia a lavorare in un rifugio, un centro di accoglienza per vittime di violenza domestica. Nati nei primi anni Settanta, questi centri erano stati creati principalmente da movimenti femministi e il personale che li gestiva parlava quasi esclusivamente inglese. Un ostacolo alla fruizione di un servizio di vitale importanza per tutte quelle donne con un background straniero, arrivate come emigrate e vulnerabili perché prive di informazioni e impossibilitate a comunicare in inglese. Spesso, per questa ragione le vittime lasciavano i rifugi e tornavano nella casa/prigione da cui erano scappate. “C’erano parecchi problemi nei rifugi esistenti (l’uso della sola lingua inglese prima di tutto, ndr); c’erano almeno 15 rifugi in quel periodo”, ricorda Anna. In questo senso, nascono nel 1975 i primi servizi dedicati alle donne migranti. Grazie al Coasit, viene fondato il primo rifugio – inizialmente gestito senza fondi ma sostenuto grazie alle risorse umane e alla passione delle persone coinvolte – per italiane e presto rivolto anche a donne di altre comunità, che esiste ancora oggi con il nome di Kara House. “Le donne australiane pensavano che non fossimo abbastanza femministe e non c’era comunicazione. Quando abbiamo cominciato a lavorare insieme le cose sono cambiate, hanno visto che eravamo come loro, sapevamo che la violenza domestica doveva essere eliminata”. Non importava il colore politico. Così vennero creati negli anni successivi, grazie al lavoro di Anna e di un gruppo di altre donne, altri programmi innovativi che ricevettero finanziamenti e che rimangono attivi ancora oggi. Per esempio, il Refuge Ethnic Workers Program agli inizi degli anni Ottanta (che oggi si chiama InTouch Multicultural Centre Against Family Violence).

Erano anni, racconta Moo, in cui tutto “era possibile. Era il risorgimento della politica” con leader come Gough Whitlam che ha dato la possibilità anche alle donne di frequentare l’università gratuitamente o di Paul “Keating, che quando siamo andate da lui a parlare di violenza domestica si è messo a piangere”. Anna è stata anche consulente del governo statale, promuovendo un nuovo approccio della politica alla violenza domestica e alle questioni delle donne. Un altro importantissimo progetto, ricorda Anna, è stato Wich (Women in Industry, Contraception and Health) formato negli anni ‘70 come lobby per portare attenzione delle istituzioni sull’istruzione, la sicurezza domestica e sul posto di lavoro e la salute delle donne emigrate. Un programma che portava nelle fabbriche donne che potevano istruire le lavoratrici nella loro lingua e che oggi si è evoluto nel Multicultural Centre for Women’s Health, di cui Anna Moo è vice presidente del comitato direttivo.

Il MCWH ancora intraprende attività di sensibilizzazione e informazione, andando a parlare con donne di tutti i background nei luoghi dove si incontrano. Il centro ha pubblicato l’anno scorso uno studio in collaborazione con la Melbourne University che mostra come ancora oggi le donne emigrate in Australia si trovino in una situazione di elevata vulnerabilità (anche se indubbi i miglioramenti nei centri di accoglienza), in particolare per la mancanza di informazioni e per la paura di perdere il visto temporaneo legato al partner se denunciano casi di violenza domestica. “Per non parlare (della situazione) delle donne che sono rinchiuse in quelli che io chiamo campi di concentramento”, conclude tristemente Anna, riferendosi ai centri extra territoriali. “Oggi stiamo tornando in un periodo conservatore” nel quale il razzismo viene ostentato. Le ragazze, le “femministe” di oggi dovrebbero attivarsi per “cambiare questa situazione”. “La strada che si sta aprendo è pericolosa, porterebbe indietro di tanti anni con grande danno per tutta la società”, ammonisce l’attivista, ora in pensione. Usare il termine femminismo o meno, in fin dei conti, è indifferente. “Noi ci siamo attaccate” (a questa definizione), dice Maria Grazia Gismondi, che ha lavorato per alcuni anni affi anco ad Anna. Per entrambe, la cosa davvero importante è: “far sentire la propria voce. Ci sono stati dei passi avanti ma ‘la lotta’ continua”.

 

SARA BAVATO

(IL GLOBO, giovedì, 30 marzo 2017)