E’ questione di etica – Una chiacchierata con Peter Mares alla presentazione del rapporto WestJustice

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Martedì 15 novembre si è svolta presso la sede della Fair Work Commission di Exhibition Street la presentazione del report Westjustice, un progetto indirizzato a combattere lo sfruttamento dei lavoratori nell’area occidentale di Melbourne (Maribyrnong, Wyndham, Hobsons Bay), fornendo assistenza legale, informazione e consulenza finanziaria alle organizzazione comunitarie di stranieri che vivono e lavorano nell’area. La responsabile del progetto, Catherine (Dow) Hemingway, che ha coordinato un vasto gruppo di collaboratori, volontari, specialisti e community leader, ha spiegato alla numerosissima platea convenuta come la questione dello sfruttamento dei lavoratori migranti in Australia stia ormai diventando un problema dalle dimensioni preoccupanti, un tema per altro recentemente ribadito anche dall’inchiesta del Senato dello scorso marzo, dalla relazione del Fair Work Ombudsman e dall’indagine commissionata dal governo del Victoria sull’intermediazione al lavoro. 
Ad essere maggiormente vulnerabili, come rivelato da relazioni, indagini e inchieste giornalistiche, non sono solamente i rifugiati, ma i lavoratori migranti di ogni categoria, che includono anche gli studenti internazionali, i 457 visa e i Working Holiday makers. 
Attraverso un serrato lavoro condotto sul territorio, i responsabili e i volontari di Westjustice hanno coinvolto le comunità straniere in questa azione di contrasto allo sfruttamento, organizzando anche sessioni educative e formative per i leader delle comunità, così da diffondere in modo capillare la comprensione delle regole del mondo del lavoro vigenti in Australia. Dieci sono i passi necessari che il lavoro di Westjustice sta cercando di portare avanti. Da un maggiore ascolto dei problemi dei nuovi arrivati, all’informazione specifica attraverso le organizzazioni comunitarie, dall’intervento diretto della politica con una legislazione più efficace, non solo nella prevenzione ma anche nella regolamentazione, fino al supporto per chi sporge denunce.  
Durante la conferenza, alla quale erano presenti anche Gabrielle Marchetti di JobWatch e Maria Azzurra Tranfaglia della Law School della Melbourne University, entrambe molto attive nella protezione  e nello studio del problema dello sfruttamento all’interno della comunità italiana, abbiamo incontrato lo scrittore Peter Mares, autore del libro “Not Quite Australian: how temporary migration is changing the nation”, pubblicato quest’anno con la casa editrice Text publishing. 
Peter Mares, contributing editor del magazine Inside Story ed ex giornalista per ABC, è un esperto di migrazione, tema sul quale ha lavorato anche come ricercatore aggiunto al Swinburne Institute for Social Reseach, nell’intento di portare all’attenzione dell’opinione pubblica quello che è un problema di proporzioni sempre più ampie.
“Il numero dei lavoratori migranti – scrive Mares – se si calcolano anche i cittadini neozelandesi che sono considerati una sorta di temporanei a vita, arriva a toccare quasi il milione di soggetti in tutta l’Australia”, una percentuale che secondo  i calcoli oscilla tra il 5 e il 7% dell’intera forza lavoro sul territorio nazionale. La situazione di precarietà, favorita da politiche sui visti che lasciano pericolose zone d’ombra nella regolamentazione, ha un impatto pesantissimo non solo nel mondo del lavoro, come ormai ampiamente dimostrato, ma pone anche una questione etica che l’Australia non può più far finta di non vedere. Questa situazione, secondo Mares, ha portato alla costituzione di una classe di “meteci” (quella fascia di abitanti dell’antica Atene, che potevano vivere e lavorare in città ma che non avevano i diritti civili e politici), che è inaccettabile in una nazione che si definisce “liberale e democratica”. Se il problema è che ci sono troppi lavoratori temporanei, allora bisognerebbe responsabilmente mettere un limite di ingressi, come quello utilizzato per l’assegnazione della residenza permanente, sostiene Mares, ma a coloro che viene permesso di entrare in Australia, lavorare, studiare, pagare le tasse, intessere relazioni, deve allo stesso modo essere consentito di avere un percorso che porti alla cittadinanza. Questo sistema, che lascia centinaia di migliaia di persone in uno stato di temporaneità, senza diritti civili per un tempo indefinito, non è più accettabile a livello etico. 
“È tempo per l’Australia – conclude Mares – di riconoscere il fenomeno della mobilità in un mondo globalizzato”. Per fare questo Mares stesso individua degli aggiustamenti alle politiche dei visti che potrebbero portare verso una più responsabile gestione della migrazione temporanea. Da un più controllato utilizzo dei 457 da parte dei datori di lavoro, alla cancellazione della limitazione nelle ore di lavoro degli studenti; da una più stringente regolazione delle società di intermediazione, alla eliminazione dell’opzione per ottenere un secondo Working Holiday visa lavorando nelle aree rurali. In quest’ultimo settore infatti, secondo Mares, data la necessità di lavoratori bisognerebbe ampliare il programma esistente del lavoro stagionale, che permette tra l’altro anche lo sviluppo dei paesi più deboli dell’area pacifica. 
Oltre a quella di Peter Mares, negli ultimi anni, voci sempre più autorevoli si stanno sollevando da più parti per chiedere che la gestione di questa situazione abbia un ruolo prioritario nell’agenda politica nazionale. Anche perché, l’allargamento dei diritti civili e dei servizi sociali per una classe rilevante di lavoratori potrebbe avere, come immediata conseguenza, un ritorno positivo sull’intero sistema economico australiano.
Luca M. Esposito
(IL GLOBO, Eureka, giovedì 24 novembre)