Go Home: l’intolleranza torna ad essere “mostruosa”

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Probabilmente in molti, anche a causa della katana di Michonne e la tigre sbrana-cattivi di Ezekiel dell’universo di “Walking Dead”, hanno dimenticato cosa animava veramente i morti viventi di George A. Romero.

Il maestro degli horror movie che nel 1968, con la notte dei morti viventi, ha presentato gli zombie al mondo, non voleva solamente creare una nuova categoria di spauracchi cinematografici da eliminare a colpi di action, ma piuttosto metaforizzare come il capitalismo aveva reso la nostra società mostruosa. Una società che, cannibalizzando se stessa, difficilmente lasciava e lascia intravedere spiragli di palingenesi, ma non esclude la resistenza fatta da piccole formazioni sociali, ancora non omologate.

Tra quelli in cui il messaggio di Romero è ancora vivo, ci sono sicuramente la regista Luna Gualano e lo sceneggiatore Emiliano Rubbi, i quali il 6 agosto a Roma, hanno dato il via alle riprese di “Go Home – A Casa Loro”, un horror movie che racconta di una capitale assediata dai morti viventi, in cui l’unico luogo sicuro diventa un centro d’accoglienza per migranti, come quelli di Lampedusa, Nauru o Manus Island.

“Eravamo io ed Emiliano, in macchina – racconta la regista – e discutevamo dell’ennesimo episodio di razzismo accaduto, purtroppo, nel nostro Paese. Emiliano mi ha detto: ‘Sai che c’è? Dovremmo fare un fi lm, ambientarlo in un centro di accoglienza e utilizzare gli zombie come metafora dell’intolleranza’ e io gli ho subito risposto: ‘Corri, scrivilo!’. Ed eccoci qui”. “Go Home” però non vuole contrapporre un esercito di ‘buoni’ a uno di ‘cattivi’, anzi, spiega Rubbi: “Non ci sono ‘eroi’ in senso stretto, in ‘Go Home’. Non ci sono neanche ‘cattivi’ tout court. Ci interessava più che altro raccontare un’umanità ‘vera’, ‘reale’, anche se inserita in un contesto fantastico. Anche Enrico, il ragazzo neofascista che suo malgrado si ritrova chiuso nel centro di accoglienza, non è un vero e proprio ‘cattivo’. È più un ragazzo che si sente senza scopi nella vita e che odia perché gliel’hanno insegnato”.

Nessun ‘noi’. Nessun ‘loro’. C’è un’umanità unica ma variegata, che barricata respinge la mostruosità fuori dal centro d’accoglienza. Per le riprese si è scelto il centro sociale Intifada di Roma ma, data la tematica, è fisiologico che il film vada ben oltre il Grande Raccordo Anulare.

“Noi, ovviamente, cercheremo di arrivare a più persone possibili – sottolinea Gualano – la tematica affrontata è universale, non avrebbe senso rivolgersi solo al pubblico italiano, tanto più che il film stesso, per scelta, è girato in multilingua, e sarà ovviamente sottotitolato. Non è un film che ha una connotazione nazionale, tanto che anche in termini burocratico-cinematografi ci abbiamo scelto di non chiedere la ‘nazionalità italiana’ per ‘Go Home’, ma di farlo risultare apolide”.

L’intuizione di Gualano e Rubbi, oltre ad aver suscitato entusiasmo tra le associazioni di settore, che hanno aiutato nella raccolta dei fondi necessari al film, ha catalizzato l’attenzione della scena artistica romana che, come ci dice Rubbi “si è da subito schierata al nostro fianco: da Zerocalcare (che ha disegnato la locandina) a mezza scena musicale capitolina (e non): Piotta, Daniele Coccia, Il Muro Del Canto, i Train to Roots e via dicendo. Avremo una colonna sonora meravigliosa”. Una vera e propria levata di scudi a difesa di un progetto totalmente finanziato dal basso, che non ha ricevuto e non riceverà nessun finanziamento pubblico ma che con passione verrà presto portato nelle sale: “‘Go Home’ dovrebbe essere pronto verso gennaio 2018 – conclude Gualano -. Da lì vorremmo partecipare a più festival (nazionali e internazionali) possibili, per poi uscire immediatamente dopo nelle sale”.

Ancora pochi mesi quindi, e il razzismo tornerà a essere descritto come qualcosa di mostruoso. Almeno sul grande schermo.

Fabrizio Venturini

(IL GLOBO, Eureka, giovedì 17 agosto 2017)