La lingua italiana in Australia sta morendo. La cultura italiana sta morendo. I club italiani stanno morendo. La colpa è dei giovani che non se ne interessano. I nipoti degli emigranti sono cresciuti parlando inglese; per loro la cultura italiana è qualcosa da vecchi e i club sono luoghi dove vanno i loro nonni a cenare e a giocare a briscola. I nuovi arrivati dall’Italia, invece, si credono superiori, con le lauree in tasca e il loro italiano standard. Non si vogliono mischiare.
Chi, con sincerità, può dire di non aver mai sentito queste affermazioni ? Ma siamo sicuri che corrispondano alla realtà? Che veramente i giovani italo-australiani non siano interessati a coltivare la parte italiana della loro identità o a essere parte della comunità?
Sabato 8 dicembre, il Co.As.It. di Melbourne ha ospitato un workshop organizzato dalla Monash University dal titolo “Remix/replay/ reclaim your Italian identity” durante il quale i partecipanti, tutti collegati in vario modo all’Italia e intorno ai 20 anni, hanno avuto la possibilità di riflettere su questa domanda e di confrontarsi con dei loro coetanei. La prima cosa che saltava all’occhio è stata l’eterogeneità del gruppo: c’erano italo-australiani di seconda e terza generazione con entrambi i genitori di origine italiana, ma anche chi aveva metà della famiglia di un’altra origine e chi, come la sottoscritta, era ‘fresh off the plane’ dall’Italia. L’esperienza di cosa significa essere italiani in Australia (o italiani d’Australia o australiani con ‘qualcosa’ di italiano) era diversa per ognuno.
Una ragazza sentiva che il suo legame con l’Italia stava svanendo dopo la scomparsa della nonna e stava cercando un modo per mantenerlo vivo; un altro si era sempre sentito italiano nonostante fosse nato e cresciuto in Australia, quasi “razzista verso se stesso” nel non volersi accettare come australiano; alcuni hanno sottolineato di sentirsi italiani in Australia e australiani in Italia, altri invece la strana sensazione di sentirsi improvvisamente a casa appena messo piede in Italia, quasi come un legame ancestrale rimasto nel Dna. C’era chi, ancora oggi, si sente discriminato per il proprio cognome, per il proprio accento o si sente chiedere da dove viene anche se non ha mai vissuto in nessun altro Paese, crescendo così con la netta sensazione di appartenere (almeno in parte) a qualcosa di diverso dall’idea comune di ‘Australia’. Un’idea di comunità vaga ma comunque presente. Anche per gli ‘italiani-italiani’ arrivati da pochi anni, nonostante siano stati descritti come dei ‘globalisti’, scatta spesso la necessità di ricreare un senso di casa, legami stabili tra loro e con la comunità circostante.
Quella che emerge è una comunità complessa, grande, non sempre riconoscibile a prima vista, inestricabilmente connessa alle altre comunità e tutt’ora in evoluzione. E se queste caratteristiche potrebbero essere viste da qualcuno come fonte di divisione o come la ragione per cui la comunità italiana è destinata a scomparire, in realtà queste caratteristiche sono la sua forza. È infatti questa diversità delle persone che fanno parte della comunità che permette alla cultura italiana di arrivare ovunque, anche nei posti più inaspettati. E non sempre solo nei suoi aspetti più superficiali.
Personalmente, le giovani generazioni mi ispirano fiducia. Ci sono molti esempi di persone impegnate a preservare la lingua e la cultura delle loro origini: i ragazzi della Dante Giovani, gli studenti che continuano a studiare italiano anche durante gli ultimi anni delle scuole superiori e all’università, quelli che l’italiano scelgono di insegnarlo. Certo, non per tutti l’essere italiano è il punto focale della propria identità. Le persone non si identificano solo in base al Paese di origine (proprio o della propria famiglia), ma anche in base agli interessi personali, alla propria professione, alle proprie preferenze di genere, al credo politico, a tante altre cose. Ma la parte italiana che ci portiamo dentro non sparisce. Molti dei ragazzi che hanno partecipato al workshop (coordinato dai professori Rita Wilson e Francesco Ricatti, da Gracie e Katrina Lolicato, Matteo Dutto e Salvatore Rossano) si attivano quotidianamente per trovare punti di contatto con l’Italia, dalla musica al cinema, fi no agli scambi universitari. Hanno le idee e la volontà per collaborare anche con le vecchie generazioni. L’interesse di costruire i famosi ‘ponti’ non manca, ma servirà tanta manutenzione per mantenerli in piedi e agevolmente percorribili.
Margherita Angelucci
(IL GLOBO – Eureka, giovedì 20 dicembre 2018)