Mentre ancora la Sea Watch 3 incrociava in attesa fuori dalle acque territoriali italiane, si è venuto a sapere che in Australia, poche settimane prima, un vecchio peschereccio con a bordo venti cittadini dello Sri Lanka, tra cui almeno un bambino, è stato individuato in alto mare, diretto verso la costa settentrionale del Western Australia. Intercettati dalle Autorità australiane, i migranti sono stati portati nel centro di detenzione di Christmas Island, la loro domanda di asilo esaminata, respinta, e nel giro di una settimana sono stati riportati a Colombo con un volo governativo. Tanta durezza ed efficienza hanno suscitato il plauso del ministro degli Interni italiano Matteo Salvini. Ma nonostante lui abbia cercato di avvicinarle, le due vicende hanno ben poco in comune.
Prima differenza: la situazione australiana è stata gestita con sicurezza e rapidità, senza stalli o incertezze. Non si è mai avuta l’impressione che la linea del ministro fosse mal sopportata da altri esponenti delle istituzioni. Procedure collaudate sono state seguite senza intoppi e la vicenda si è chiusa nel giro di pochi giorni. Giusto o sbagliato che sia l’esito, né l’opinione pubblica nazionale né quella internazionale hanno assistito a tentennamenti, incertezze nella linea di comando, fughe di notizie, scrupoli di coscienza individuali o altre situazioni che danneggiano la fredda credibilità degli apparati di uno Stato.
I media hanno saputo dell’episodio solo con molto ritardo, di fatto a rimpatrio avvenuto. Niente interviste ai protagonisti, niente messaggi audio intercettati, niente immagini delle persone in mezzo al mare. Eppure si trattava di una notizia piuttosto importante: il primo tentativo di ingresso in Australia via mare negli ultimi 5 anni. Questo costituisce una seconda differenza non trascurabile. La grande distanza dell’area di mare coinvolta ha reso quasi impossibile ai media raccontare la vicenda. Le strutture militari della Difesa Australiana hanno gestito la situazione senza alcuna pressione mediatica e senza dover rendere conto ad altri che alla linea di comando. Da un lato si è evitato il circo, dall’altro però si è impedito il dibattito.
A diverse settimane di distanza, interrogato dalla stampa per capire se le richieste di asilo fossero effettivamente state esaminate e su quale base fossero state respinte, il vice primo ministro Michael McCormack ha raccontato l’episodio con distacco, senza sfruttarlo per accrescere il proprio consenso, senza mostrare compiacimento, senza eccedere nei toni. Il sotto testo è un po’ ambiguo, ma non c’è alcuna personalizzazione della vicenda né alcun cedimento a sentimenti di disumanità. Il clandestino non è un nemico, la legge non è vendetta, le regole non sono né buone né cattive.
Agli occhi di un italiano che vive in Australia e tutti i giorni legge le esternazioni di Salvini, anche questa è una notevole differenza di stile. In Australia quando qualche politico si avventura a esprimere pubblicamente idee xenofobe, viene ancora stigmatizzato e isolato dalla grande maggioranza dei suoi colleghi. Seppure la condotta pratica del Paese sia forse meno inclusiva di quanto dichiarato, multiculturalismo e volontà di integrazione sono ancora valori sostenuti pubblicamente dalla grande maggioranza della classe dirigente. In Italia dilaga invece il “cattivismo”, neologismo inventato di recente per indicare l’abitudine a fare dichiarazioni dure, più che politicamente scorrette, in genere contro le minoranze. Chi protesta viene tacciato da ipocrita.
A partire dal 2013 e senza soluzione di continuità, l’operazione militare “Sovereign Borders” (sovranità dei confini) respinge o deporta ogni migrante arrivato illegalmente via mare in territorio australiano. Il “No way” è il suo lato mediatico: una vera e propria campagna pubblicitaria, diffusa anche nei Paesi confinanti, che spiega come non ci sia alcun modo di stabilirsi in Australia arrivando illegalmente via mare. Le Nazioni Unite hanno avvisato l’Australia che questa politica di respingimento in mare dei richiedenti asilo è illegale secondo il diritto internazionale e hanno criticato il Paese per precedenti casi in cui le domande non erano state esaminate con la dovuta attenzione. Tuttavia questi richiami restano sostanzialmente privi di conseguenze, anche a livello di opinione pubblica interna. Sarebbe più facile condannare un comportamento se non si rivelasse tanto efficace. Sembra non esserci alcun dubbio sul fatto che il fine giustifichi i mezzi. A differenza dell’Italia, stretta tra i propri obblighi internazionali e la mancanza di solidarietà dei cosiddetti “partner” europei, l’Australia appare libera nella propria autonomia.
Un ulteriore elemento di differenza consiste nel fatto che la linea Australiana appare decisa e viene portata avanti con coerenza, freddezza e lucidità, spesso a prescindere da eventuali elezioni e cambi di Governo. Immigrare in Australia non è dunque considerato un diritto bensì una concessione non scontata che lo Stato ti accorda solo seguendo le proprie regole e procedure. In Italia nemmeno questa sembra un principio acquisito e ogni nuovo arrivo di immigrati riapre il dibattito. In Australia esistono percorsi legali e ordinati da seguire. Se cerchi di entrare illegalmente vieni respinto o arrestato ed espulso, perché il tuo tentativo viene interpretato come un atto violento e ti preclude di per sé anche l’eventuale concessione dell’asilo. Sarà perché in fondo l’Australia si sente più un’isola che un continente, qui la difesa dei confini è considerato un dovere cui lo Stato deve adempiere per il bene dei propri cittadini. Se non lo fa, trascura uno dei suoi doveri fondamentali. E su questo sembra esserci poca differenza tra Liberal e Labor.
Nelle ultime ore anche il Presidente Donald Trump ha dichiarato che c’è molto da imparare dalla gestione australiana dell’immigrazione. La direzione, al momento, sembra segnata.
(IL GLOBO, Eureka, giovedì 4 luglio 2019)