Uno dei più grandi filologi italiani viventi, Luciano Canfora, dice che il compito di chi si occupa del passato è quello di “ricercare la verità”. Purtroppo, è un compito talmente arduo e pericoloso che sono davvero in pochi coloro che riescono ad assolverlo.
Intanto perché la ricerca della verità si muove su un terreno molto impervio, un terreno avvolto dalle nebbie dell’interpretazione e dove il potere agisce con tutta la sua arroganza e il suo cinismo, imponendo la propria egemonia. E poi perché, come uomini, la ricerca della verità significa fare i conti con la nostra coscienza e con quella parte del nostro animo che opera in noi per proteggere, in qualche modo, le debolezze con cui non vogliamo fare i conti. È quella la parte del nostro animo che ci spinge a non volerla vedere la verità, a nascondercela, perché vederla ci costringerebbe a prendere atto della difficoltà che è insita nell’accettarla. Se la accettassimo saremmo infatti costretti ad operare una scelta tra l’impostare la nostra vita di conseguenza, col rischio di dover uscire dalla nostra zona di comfort; o non fare niente, con la nostra coscienza che però a quel punto ci sussurrerebbe continuamente all’orecchio che ci siamo fatti immobilizzare dal timore di perdere qualche privilegio, meritato o meno, invece che agire in nome di quella verità della quale abbiamo preso consapevolezza. E’ per questo che la sapienza popolare sarcasticamente elogiava l’ignoranza, perché la conoscenza è fardello pesante da portare e prendere atto della verità non può prescindere poi dall’agire di conseguenza. Il che spiega anche perché nella maggioranza di noi la spinta a non volerla nemmeno vedere, alla fine, diventa un rifugio.
Il Potere, di tutto questo nostro dilemma interiore, è perfettamente consapevole. Come è consapevole del fatto che la paura è, in principio, forza molto più potente, tanto della coscienza, quanto del desiderio di ricerca della conoscenza. Soprattutto, in mancanza di una società che fornisca quegli strumenti culturali utili per muoverci dentro la complessità di cui la verità è fatta. La coscienza però, pur avendo in noi un modo di agire molto meno dirompente della paura, lavora lentamente e, se la combattiamo, quasi ci avvelena, gradualmente, giorno dopo giorno, rendendoci sempre più distanti dagli uomini che siamo davvero e che vorremmo essere. Un processo crudele, che finisce per farci odiare noi stessi e odiando noi stessi di non fidarci degli altri, bruciando il nostro animo e il suo senso di giustizia nel fuoco del cinismo e dell’indifferenza. E l’indifferenza, scrive Gramsci, “non è vita”, è “il peso morto della storia”, una forza che “opera potentemente nella storia” come “materia bruta che strozza l’intelligenza”, come un male che si abbatte su tutti ed è causato dal fatto che la maggior parte degli uomini “abdica alla sua volontà”, abdica a ciò che è veramente, a ciò che sente, per scoprire suo malgrado, alla fine, che la sua coscienza è molto, ma molto più potente della sua paura.
Quando lo scopre è però generalmente troppo tardi, perché il tempo, come dice tristemente Tomaso Montanari citando Bernini, scopre sempre la verità, solo che purtroppo non la scopre in tempo. È tardi dunque quando ci si rende conto che per tutta la vita si è permesso al potere di entrarci dentro, di condizionarci, di annebbiare la verità che era davanti ai nostri occhi, di blandire le nostre paure, di renderci ipocriti, prima di tutto verso noi stessi e poi nel rapporto con il mondo che ci circondava. Il tutto in cambio di una tranquillità che altro non è che indifferenza.
È il potere a fornirci una versione della storia distorta, inquinata da tutta una serie di scuse e giustificazioni che altro non sono che scorciatoie per raggiungere più velocemente quello stato di cinismo e indifferenza che ci appaiono l’unico appiglio per poterci salvare e che, invece, si rivelano essere la nostra trappola.
Si capisce così come per il Potere tutti coloro che, nonostante tutto, vanno ugualmente alla ricerca della conoscenza, con spirito critico, senza accettare le verità confezionate dal pensiero egemonico, siano visti come un pericolo da cooptare, oppure, in alternativa, isolare, ostacolare, relegare nell’oblio. Si capisce come esso tenti con tutte le sue forze di cancellare quelle storie che non vuole siano ricordate, inquinando la nostra memoria, la memoria collettiva, con retoriche e narrazioni che la offuschino e la annebbino.
Come la rimozione della memoria sia uno degli strumenti utlizzati dalle classi dominanti ai danni di tutti, in tutto il mondo e da sempre, ce lo spiega un altro grande storico, Alessandro Barbero. “Da sempre le classi dirigenti – dice Barbero – hanno escogitato modi per far pesare la propria egemonia culturale” sulla società e “l’epoca in cui viviamo, più di tutte, è quella della narrazione unica della società umana, in cui al centro di tutto c’è il profitto”. Le conquiste delle classi più deboli sono viste dunque come un pericolo da cancellare dalla memoria collettiva. E’ per questo che in noi stessi dobbiamo trovare la forza di riconoscere e svelare questo meccanismo eticamente e moralmente perverso. E’ necessario capire come al profitto vada contrapposta la solidarietà, per smontare la visione unica del mondo imposta dalla narrazione egemonica di chi è al potere e per farlo occorre una presa di coscienza, una consapevolezza della realtà in cui viviamo. Paradossalmente, oggi, proprio la crisi che stiamo attraversando ci offre uno spiraglio, che presto si richiuderà, per provare a liberarci di questa egemonia culturale. Ecco perché proprio in questo momento non c’è atto più potente per guardare al futuro che quello di ricordare, che quello di avere il coraggio di guardare alle verità del passato e squarciare finalmente, tutti assieme, le nebbie che sulla storia ha steso la mano del potere.