Al Seminario di Palermo è nata una nuova formazione sociale
Quando Joseph Nye, professore della Harvard University, coniava nel 1990 l’espressione “soft power”, non intendeva tracciare il perimetro di poteri più “deboli” di altri, anzi. In un mondo che diventava globale e che oggi è tale a tutti gli eff etti, Nye intuiva che altre forze scendevano nell’agone della politica mondiale. Non più solo il potere militare o economico, definiti come “hard power”, avevano la capacità di influenzare le decisioni di partner o avversari internazionali, per il semplice motivo che il verbo “influenzare” si era ufficialmente arricchito di più sfumature. Accanto alla coercizione militare, all’imposizione economica, ora si individuava facilmente la cooptazione culturale, diventava significativa sul tavolo delle trattative la condivisione di valori e il credito politico che potevano vantare le istituzioni di riferimento. Tutto ciò esisteva già ben prima della data di uscita di Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, ma con la pubblicazione di questo testo gli si dava un nome.
Nello stesso anno, in Italia, con decreto n.434 del Presidente della Repubblica, veniva presentato e approvato il regolamento di attuazione del CGIE ovvero, il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, una delle declinazioni più originali del soft power italiano. Oggi, soprattutto guardandolo dall’estero, dove sempre più spesso la libera circolazione delle merci è garantita a scapito di quella delle persone, e il mettere dei prezzi a quelli che siamo abituati a considerare dei diritti (come l’assistenza sanitaria), li rende di fatto dei servizi, ci si ritrova a sghignazzare di istituzioni del genere, visti come progetti a “budget zero” e perciò impotenti. Abbiamo invece un disperato bisogno di tornare a prendere sul serio realtà del genere. Il disincanto va sconfitto, sostituito con il semplice ma sempre più spesso dimenticato assunto, che ciò che è perfettibile va perfezionato e che sta a noi farlo.
In questo, ci ha indicato la via la VII Commissione di quel CGIE, presieduta da Maria Chiara Prodi, che ha organizzato dal 16 al 19 aprile, con il patrocinio del MAECI e il partenariato del Comune di Palermo, un seminario per i giovani italiani all’estero, in cui 115 delegati delle rispettive circoscrizioni consolari di riferimento, con un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, si sono incontrati per discutere cosa si possa fare per rispondere alle sfi de che il mondo contemporaneo pone alla nuova mobilità. Community leader, giovani presidenti di Com.It.Es, operatori del terzo settore, studenti, studiosi, artigiani o artisti. Questi alcuni dei profili che hanno composto il “generone umano”, per dirla con Fellini, che si è ritrovato a Palermo.
Ed è difficile, ancora difficile oggi, trovare una parola che non sia felliniana per definirli, per definirci, perché ancora oggi, il racconto che si fa delle migrazioni, delle mobilità, della libertà di circolare essendo umani è stantio, inadeguato, fi accato da mitologie divise, figure retoriche tossiche che ho deciso non citerò mai più, prendendo ad esempio Jacinda Ardern, il primo ministro neozelandese, che si rifiutò di citare il nome dell’attentatore di Christchurch, perché la memoria è importante e non va sprecata. Se citare il caso neozelandese è pretestuoso, permettetemelo, perché è forse uno dei più fulgidi esempi per rinforzare il concetto di soft power.
Secondo l’ultimo sondaggio dell’osservatore Monocle, infatti, nel 2018/2019, proprio il piccolo e scarsamente abitato Paese insulare, sarebbe balzato all’undicesimo posto nella classifi ca dei Paesi con il più grande potere di influenzare le politiche internazionali, al netto di interventi militari, e proprio per il modo in cui Jacinta Ardern ha gestito la crisi scaturita dall’attacco terroristico del 15 marzo. Un posizionamento che li colloca appena due gradini sotto gli USA e sopra Paesi come Italia, Spagna, Cina o Corea del Sud. Ancora una volta questa è la dimostrazione del peso dei poteri morbidi, lo stesso che permette ai localismi di porre rimedio ai fallimenti epocali nazionali, che in Italia ha dato vita a quel movimento di “sindaci virtuosi” di cui Leoluca Orlando, primo cittadino di Palermo, è uno degli attori principali.
Proprio Leoluca Orlando ha fortemente voluto e sostenuto l’iniziativa del CGIE nella sua città, perché come ha dichiarato aprendo l’evento “quando mi chiedono quanti immigrati, quanti stranieri ci sono a Palermo io do sempre la stessa risposta: ‘Zero’. A Palermo ci sono solo palermitani”. Questa provocazione, in verità, nasconde un concetto squisitamente politico legato a un’esigenza: cosa vuol dire essere cittadini? Il concetto di cittadinanza, in un mondo globale, va ristrutturato? Se sì, come?
Preoccupazioni e dubbi che, prima fra tutti, sembra condividere Maria Chiara Prodi, l’ispiratrice, l’anima e il cuore di questo evento che, con un pugno di proverbiali “ceci secchi”, è riuscita a far convolare a nozze il ministero degli Aff ari esteri e i suoi figli più lontani, sia geografi camente che anagraficamente. Un profi lo perfetto il suo per guidare la formazione sociale che nascerà dal seminario di Palermo; da sempre impegnata sia sul fronte politico che associazionistico, resiliente e resistente ai tentativi del pensiero dominante di dicotomizzare questi due mondi, non può non far pensare alle abusate parole di Rosa Luxemberg che ricordano come solo “chi non si muove non si rende conto delle catene in cui è costretto”. A lei però, da sempre in movimento, calzano benissimo. Staremo a vedere chi saprà seguirla.
Fabrizio Venturini