Behrouz Boochani è un giornalista nato in Kurdistan, nell’Iran occidentale, è laureato alla Tarbiat Moallem University e alla Tarbiat Modares University, possiede un master in scienze politiche, geografia politica e geopolitica. È uno scrittore, giornalista e regista fuggito dall’Iran a causa del suo attivismo per difendere la cultura curda e il suo giornalismo.
Oggi Boochani è diventato la voce di Manus Island, l’isola sulla quale lo ha confinato la politica migratoria australiana e collabora con il The Age e il The Saturday Paper, comunicando attivamente via Twitter: “L’Australia – riflette Boochani – ha fatto un grande errore a incarcerare uno scrittore”.
Nonostante la sua situazione, Boochani ha vinto numerosi premi giornalistici, co-diretto un documentario girato con il suo cellulare e pubblicato da poco il suo primo libro No Friend but the Mountains: Writing from Manus Prison. Un lavoro per il quale ha appena ricevuto il premio per il giornalismo d’inchiesta dedicato a Anna Politkovskaja, consegnatogli a inizio ottobre durante il Festival dell’Internazionale a Ferrara, che ogni anno premia l’impegno e il coraggio dei reporter che si sono distinti per le loro inchieste.
Il suo premio però è stato ritirato da Omid Tofi ghian, professore di filosofia presso l’American University del Cairo, ricercatore presso l’università di Sydney e traduttore del libro. Behrouz infatti non ha potuto ritirare personalmente il riconoscimento, come non ha potuto partecipare alla presentazione del suo libro, visto che dal 2013 è bloccato sull’isola di Manus, “la prigione di Manus” o “il purgatorio”, come la definisce lui stesso.
L’isola di Manus è un luogo remoto nell’Oceano Pacifico, a 250 km a nord della Papua Nuova Guinea, dove sono trattenuti circa un migliaio di richiedenti asilo, fuggiti dai loro Paesi d’origine per cause differenti. La loro richiesta di entrare in Australia è dal 2013 stata dichiarata irrevocabilmente impossibile, da quando il governo Abbott ha inaugurato una politica di ‘tolleranza zero’ con la campagna “Stop the Boat”, per cui tutti i richiedenti asilo arrivati illegalmente via mare o intercettati in acque australiane, sarebbero stati trasferiti in centri di detenzione sull’isola di Manus e Nauru. Una politica che mira a scoraggiare i rifugiati, provenienti principalmente dalle vicine coste dell’Indonesia, dall’intraprendere il viaggio via mare. Per coloro che finiscono a Manus, il futuro è una totale incertezza: le uniche opzioni possibili, una volta riconosciuto il loro status di rifugiato, sono quelle di rimanere sull’isola, di ristabilirsi in Paesi terzi, oppure di tornare nei Paesi da cui sono scappati.
Quella del centro di Manus, descritta da Boochani, è una dimensione dove le persone sono tagliate fuori, tenute nascosti e isolate dal mondo, tanto che per comunicare con l’esterno e scivere il proprio libro, Boochani è stato costretto a usare WhatsApp. Nell’arco di 5 anni, con questo strumento, ha inviato pezzetto per pezzetto il suo libro fuori dall’isola. “La ragione principale per cui ho scritto questo libro sul mio telefono e non su carta, è stato perché non mi sentivo al sicuro. Molte volte le guardie ci hanno confiscato le poche cose che possedevamo senza motivo, immagina se avessi scritto il libro su carta, lo avrei perso di sicuro” ha spiegato Boochani a Eureka, in un’intervista, anche quella, realizzata attraverso WhatsApp.
Anche oggi infatti, Boochani vive in un campo di detenzione chiamato East Lorengau, che è uno dei 3 nuovi centri in cui i circa 200 richiedenti asilo sono stati trasferiti con la forza un anno fa, dopo la chiusura di altri centri: “La situazione è la stessa di quella di prima e viviamo perennemente in un limbo – ci racconta -. Non abbiamo idea di quando usciremo da qui e di dove andremo; siamo esausti, in molti soffrono di grave depressione e ci sentiamo tutti in ostaggio”.
“What is my crime?” (qual è il mio crimine?) è la domanda che Boochani ha rivolto in diretta televisiva al primo ministro Malcolm Turnbull durante un’intervista su ABC nel periodo della campagna elettorale 2016, una domanda che continua a ripetere, ma alla quale non ottiene nessuna risposta.
La scrittura lo ha aiutato a sopravvivere. Il libro, nel quale racconta la sua vita negli ultimi 5 anni, inizia con la descrizione dei due viaggi che avrebbero dovuto portarlo dall’Indonesia all’Australia, durante i quali con altre persone ha rischiato la vita. Boochani ricorda il suo salvataggio dalle acque da parte di una nave cargo inglese, la quale li consegna alla Marina australiana che li porta nel territorio di Christmas Island. Era il 2013. Troppo tardi, perché la legge sulla restrizione dell’accesso in Australia per chi arrivava via mare era stata approvata da pochi giorni. Ecco quindi il racconto del limbo, del distacco dal mondo, in un luogo dove né giornalisti né avvocati possono mettere piede. L’arrivo sull’isola di Manus, le condizioni di vita e la grande confusione da parte di tutti i prigionieri, le storie dei suoi compagni, il “sentimento di astio” e la “tortura psicologica” subiti dai detenuti da parte delle guardie e di come sull’isola tutti i rifugiati siano considerati dei “terroristi”. Ci racconta di come la vita sull’isola sia scandita dalle file: per il cibo, il bagno, il telefono, le sigarette, il paracetamolo.
La storia di come abbia barattato sigarette e vestiti, riuscendo a ottenere un cellulare e dando vita alla sua nuova missione: “Documentare una storia australiana – dice lui stesso – che non rientra in nessun documento uffi ciale”. Il risultato è un libro che diventa una testimonianza. Una testimonianza che, con grande gioia di Behrouz, ha raggiunto moltissime persone e che, grazie al premio che gli è stato assegnato dall’Internazionale, oggi c’è la speranza che possa essere tradotta in italiano: “Abbiamo presentato il libro in circa 20 diverse location in Australia e ce ne saranno altre a novembre e dicembre” dice orgoglioso. “La società australiana sta rispondendo in maniera massiccia e questo significa che la gente vuole sapere davvero che cosa il governo ha fatto sulle isola di Manus e Nauru”, è convinto Behrouz.
Salutandoci, ci ha chiesto se conoscessimo ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi, perché in molti, ci dice, hanno osservato forti somiglianze tra la sua opera e quella dello scrittore italiano sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. Lui lo sta leggendo, e anche se forse il paragone è un po’ ardito, ammette, il messaggio che comunicano è simile: la libertà è il nostro bene più prezioso.
Roberta Vitiello
(IL GLOBO – Eureka, 18 ottobre 2018)