Il tema ricorrente in chi parte è quello della grande sfiducia
Da tempo nell’opinione pubblica italiana il racconto dell’emigrazione italiana ha connotati retorici ben definiti, condividi la descrizione che i media danno del fenomeno?
Dal mio punto di vista, il fenomeno dell’emigrazione è in Italia un argomento ancora tabù. Si parla quotidianamente di immigrazione, ma non si parla abbastanza di emigrazione. L’attenzione dei media è stata, a momenti, più concentrata sulla fuga dei cervelli, mentre da quella che è la mia esperienza, sono molti i giovani che lasciano l’Italia anche subito dopo il diploma, per tentare un‘esperienza all’estero, sia di lavoro che di studio. Quello che tra i due gruppi rappresenta il denominatore comune è la grande sfiducia: la sfiducia nelle istituzioni e la sfiducia nel poter costruire un futuro almeno dignitoso in Italia. Un sentimento che descriverei come di profonda insoddisfazione e disillusione. Il proprio paese d’origine viene infatti percepito come totalmente incapace di esaudire aspirazioni e sogni.
Io lavoro qui in Australia come psicologa professionista e sono numerose le telefonate che ricevo di giovani, che dopo aver fatto il mio stesso percorso di studi, mi chiedono come sono le condizioni degli psicologi in Australia e quali sono le possibilità di trovare un lavoro soddisfacente qui. L’esperienza, che la maggior parte delle volte mi viene riportata, è quella di percorsi di studio lunghi e costosi, che poi non portano ad avere la certezza dell’impiego o il tentativo di aprire uno studio in libera professione, per poi ritrovarsi a pagare delle tasse quasi superiori a quello che realmente si è percepito.
Anche nel dibattito politico il tema dell’emigrazione è sempre più in primo piano, ma la conoscenza che la politica ha del fenomeno appare limitata, in che modo suggeriresti alle istituzioni di inquadrare il tema dell’emigrazione?
Vengo da due mesi trascorsi in Italia e sinceramente non ho mai sentito parlare una sola volta di emigrazione al telegiornale, ma quotidianamente di immigrazione. L’emergenza immigrazione in Italia con i suoi drammi umani e i suoi dibattiti politici ha, dal mio punto di vista, oscurato un fenomeno altrettanto consistente come quello del fenomeno dell’emigrazione degli italiani all’ estero.
Ti senti un cervello in fuga? Come descriveresti la tua esperienza di emigrazione?
Sicuramente mi ritengo un cervello un fuga nel senso che ho portato a termine il mio percorso di studi in Italia, ho infatti una Laurea e un Master di specializzazione, entrambi conseguiti in Italia.
La mia esperienza in Australia è stata però all’inizio sicuramente dura, sia per l’ottenimento dei visti, sia per il percorso di riconoscimento della Laurea. Quando si emigra si deve iniziare sicuramente dal basso, con umiltà, ma se si hanno obiettivi chiari in mente, qui si possono raggiungere. In Italia devo dire che purtroppo questo ancora non è ancora possibile.
In Italia il dibattito sull’immigrazione ha oscurato quello sull’emigrazione
Tornare o non tornare, il tema del ritorno è un aspetto presente nella tua riflessione personale sulla tua esperienza migratoria?
Il desiderio di tornare mi ritorna a fasi cicliche ed è più che altro dovuto al fatto che ho lasciato la mia famiglia d’origine in Italia. Senz’altro qui ho costruito la mia famiglia e miei affetti, ma una parte della mia vita affettiva e relazionale si trova ancora in Italia.
Spesso sento dire tra i miei coetanei, che hanno più di 40 anni oramai, la frase “sto qui solo per il lavoro”. Ecco mi trovo anch’io in questo gruppo di 40enni sfiduciati dall’Italia dal punto di vista lavorativo. Quindi posso tranquillamente anch’io affermare lo stesso: sto qui solo per il lavoro. Per costruire le basi di un mio possibile ritorno bisognerebbe che le istituzioni attuassero un cambiamento radicale in tema di sanità per quello che concerne la figura dello psicologo. In Australia infatti lo psicologo è riconosciuto a pieno diritto come una professione sanitaria. Lavoriamo a stretto contatto con i medici di base e parte della nostra tariffa viene pagata direttamente dal Sistema sanitario nazionale australiano. Questo per fare in modo che l’accesso al servizio di supporto psicologico non sia così costoso, quasi proibitivo, come invece lo è in Italia. Il servizio di sostegno e consulenza psicologica dovrebbe quindi diventare anche in Italia un servizio sanitario al quale tutti i cittadini possano accedere senza problemi, come l’andare dal medico di base. Forse, se questo grande, e immagino costoso, cambiamento diventasse una realtà anche italiana, potrei seriamente iniziare a pensare ad un possibile ritorno.
Riterresti utile un impegno da parte delle istituzioni per rendere più informati coloro che vorrebbero tentare l’esperienza migratoria, sia sui Paesi dove desiderano spostarsi, sia sui servizi che le istituzioni italiane all’estero offrono?
Sicuramente penso che le istituzioni, come ad esempio le ambasciate, dovrebbero essere in grado di dare più informazioni sia sui possibili visti lavoro e visti studio, sia in tema di riconoscimento di titoli di studio.
Esiste spesso la falsa credenza che un titolo di studio possa permettere di accedere subito alla professione anche all’estero. Purtroppo non è affatto cosi, soprattutto per chi fa parte di un albo professionale. C’è tutto un lungo processo di riconoscimento dei titoli, al quale chi emigra deve far fronte e che è a volte causa, di elevato livello di stress ed insoddisfazione.
Il percorso di emigrazione non è assolutamente facile come appare ed è importante che gli enti soprattutto italiani forniscano informazioni su questo.
Se nel partire si hanno obiettivi chiari in mente è più facile raggiungerli
Ritieni che le Istituzioni italiane debbano impegnarsi per definire progetti concreti che facilitino il rientro e il rinserimento sociale di chi ha vissuto anni all’estero?
Al momento sono a conoscenza del fatto che chi rientra in Italia, dopo un periodo all’estero, abbia diritto per alcuni mesi a percepire l’assegno di disoccupazione. Questa mi sembra una buonissima cosa, che dovrebbe però essere accompagnata da progetti di reinserimento lavorativo seri. Chi torna dopo un esperienza all’estero diventa il portatore di un vero e proprio “ tesoro” fatto di esperienze, nuove conoscenze e competenze, che dovrebbero in teoria essere riconosciute e valutate come tali.
Consiglieresti a un giovane italiano di provare a fare un’esperienza di vita all’estero? Se si perché? Con quali accorgimenti?
Sicuramente consiglierei di emigrare, ma è importante avere la consapevolezza, che emigrare significa veramente mettersi in gioco, spesso annullando tutte le cose che già eravamo riusciti a costruire nel nostro Paese d’origine. Emigrare vuol dire, secondo me, ripartire da zero per poi riuscire forse a costruire qualcosa di meglio, qualcosa che in Italia purtroppo ci è stato più volte negato. Questa è stata anche la mia esperienza di emigrazione, ed è importante per me ribadirlo.
Che opinione hai delle Istituzioni italiane all’estero? Comites, Cgie, rete diplomatica, Istituti di cultura, ecc.
Dall’ altra parte del mondo fa piacere entrare in contatto con enti italiani come Coasit, Consolato e gli Istituti di cultura. Ci si sente tutti parte di una grande famiglia. La mia opinione riguardo a questi enti è senz’altro buona. Li vedo abbastanza presenti sul territorio e per la maggior parte volti all’aiuto e al sostegno del cittadino italiano.