C’è un momento in cui l’avventura d’improvviso finisce e ciò che sembrava nuovo diventa estraneo
Ricordo la sensazione che provai la prima volta che guidai fuori da Melbourne, la più europea delle città australiane dove vivo più o meno stabilmente da tre anni e alcuni mesi.
Fu come un tonfo, nel vuoto di una pianura sconfinata, un breve tremito di stupore di fronte a una vastità irriducibile. Oggi quella sensazione è la consapevolezza di uno spaesamento: ogni volta guardo la stessa scena fuori dalla stessa finestra della stessa stanza dell’appartamento in cui vivo, comodamente, in un quartiere centrale di Melbourne, provando la stessa sensazione di estraneità. C’è un momento nel corso di un viaggio in cui l’avventura d’improvviso finisce, e ciò che sembrava nuovo diventa estraneo. È con questa disillusione che comincia l’esperienza della migrazione.
Non ho dimenticato il giorno prima di iniziare gli 88 giorni nelle farm: al termine di un viaggio di cinque ore di macchina, l’arrivo in questo paese di confine tra Victoria e NSW, le lacrime, il terrore di essere più solo che mai, gli occhi aperti davanti a un incubo.
A un anno dal termine di una brillante carriera universitaria, vestendo capi da lavoro, soffocando con umiltà i singulti della dignità, alloggiando in una baracca fatiscente, mi ritrovai in un capannone a muovere e impilare casse, giorno dopo giorno, senza certezza di avere lavoro il giorno successivo, sopportando mal di schiena e graffi su tutte le braccia, cercando di evitare reprimende e violenze verbali che periodicamente prendevano di mira questo o quel lavoratore immigrato, perché non abbastanza veloce, non abbastanza preciso, non abbastanza conforme allo standard di schiavitù. Con me decine di colleghi, europei ed asiatici, a condividere la stessa parentesi da incubo nell’Australian dream, cercando di alleviare giornate di sudore con cene dignitose e la speranza di un rapido ritorno al mondo civile.
Nonostante queste premesse e nonostante tutto, la storia della mia migrazione ha i contorni del privilegio. La fortuna di avere avuto una compagna australiana come motivo per la mia migrazione, sostegno costante fin dal primissimo giorno nell’ambientarsi in questo nuovo mondo, centro di una rete di amici e familiari di inestimabile valore per un migrante. Eppure amarezza e solitudine caratterizzano ancora i miei momenti di pausa tra un lavoro e l’altro, e se non fosse per i ragazzi di Nomit e la loro rete di contatti la mia vita qui sarebbe ancora ferma alla disperata ricerca di un lavoro all’altezza della mia formazione. Non mi sento un cervello in fuga, e continuo a sentire l’Italia come il mio Paese. Un Paese che critico e amo, dove vorrei tornare un giorno con le carte in regola per rimanerci, con la certezza di una vita dignitosa.
In questi tre anni e alcuni mesi passati qui a costruire una vita quasi normale e per molti versi sempre più apprezzabile, non ho ancora incontrato uno solo di questi nuovi migranti che non riveli, al di là della proattività necessaria per continuare ogni giorno ad arricchire la propria esperienza, un velo di tristezza. Il segno indelebile di chi ha dovuto trattenere il respiro un po’ troppo a lungo, di chi convive con l’incertezza e l’instabilità, di chi con pazienza affronta i sacrifici. Di chi, pur avendo trovato il successo e una carriera, è provato dalle distanze, non solo geografiche ma anche sociali e culturali: come dei piccoli scalini che compaiono qua e là a complicare la vita di tutti i giorni, riattizzando le ceneri della nostalgia.
La precarietà è l’insondabile misura del nuovo fenomeno migratorio che stiamo vivendo.
Precarietà è l’insondabile misura del nuovo fenomeno migratorio che stiamo vivendo: precario è il percorso burocratico, precaria è la situazione emotiva, precaria è la rete di conoscenze, precarie diventano le amicizie e perfino i rapporti con i propri cari. Precaria è anche la situazione da cui partiamo: precaria l’esperienza lavorativa nel periodo post laurea, precaria la fiducia nel futuro del Paese che lasciamo e precaria la possibilità di realizzarvi le proprie aspettative e potenzialità.
Precaria è anche la capacità, o meglio la volontà di comprendere il valore dell’esperienza vissuta all’estero da questi nostri giovani, e di quanto possa essere fondamentale al fine di migliorare il paese che abbiamo lasciato. Nessuno più di noi, che l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle e con il sacrificio del nostro tempo, possiamo comprendere e interpretare la differenza tra assimilazione e integrazione, la distanza tra respingimenti e solidarietà, il ponte tra razzismo e accoglienza.
Per noi che abbiamo scelto di provare questa strada l’esigenza è di dare un senso a questa esperienza, di farne un prezioso carico di conquiste per arricchire il Paese a cui vogliamo tornare. Non tutti però hanno la forza di cercare e sostenere il peso di questa ricerca di senso da soli, non tutti sono abbastanza forti per perseverare nelle difficoltà alla ricerca del successo. Troppi e troppo spesso devono affrontare difficoltà e sofferenze che si potrebbero evitare con una pianificazione e un sistema di sostegno alla migrazione e al rimpatrio. Le istituzioni preposte al governo dell’emigrazione, sia in Italia che all’estero, dovrebbero impegnarsi per rendere costruttiva questa nuova migrazione: è dirimente sapere di poter contare su un sostegno nel caso di necessità, che offra aiuto burocratico, protezione contro le difficoltà di ambientamento, supporto all’isolamento sociale, difesa contro i mille vincoli e regole. Non possiamo lasciare soli queste ragazze e questi ragazzi, questi cittadini italiani.
Nell’isolamento in cui resistono giorno dopo giorno, aggrapparsi a un’illusione, svanita troppo presto, diventa per molti una necessità. La solitudine si cela dietro ai loro racconti edulcorati di una vita nuova, di un Paese pieno di opportunità: un buon lavoro, o più spesso un umile lavoro ben remunerato; una casa, il benessere economico, i piani per un futuro normale. L’isolamento genera amarezza e frustrazione, che si rivolgono contro il Paese da cui si proviene, spingendosi perfino ad impedire ogni forma di solidarietà con i propri connazionali espatriati; l’idea di tornare è impronunciabile, la nostalgia dei propri cari diventa fredda come una cicatrice sotto la pelle. Nel rispetto delle mille regole e in attesa del prossimo visto si compie l’esistenza di un estraneo. Noi migranti, estraniati in un Paese lontano, non vogliamo più essere descritti e considerati come estranei dal Paese che amiamo e a cui vogliamo appartenere.
L’Italia oggi ha bisogno di noi per capire la differenza tra integrazione e assimilazione
Del resto le esigenze di queste persone, le loro aspettative, non sono le stesse di chi raggiunse questo continente negli anni ‘50 e ‘60. Trovare un lavoro, una casa, comunicare e ambientarsi in Australia non è un problema per quasi nessuno di questi ragazzi. Per nessuno di noi l’emigrazione si è presentata come una necessità. Per molti di noi atterrati in Australia l’emigrazione è una scelta, ponderata in silenzio. Una scelta che richiede coraggio per essere presa, sacrifici per essere portata avanti, ma sempre nella solitudine di un generale abbandono e di un cinico distacco. L’emigrazione sta cambiando: la maggior parte dei nuovi migranti ha tra i 25 e i 31 anni, ha una laurea o un diploma, proviene dalle regioni ricche del Nord Italia e di estrazione sociale media e medio alta. Si tratta di persone istruite, capaci di calcolare i costi individuali della loro scelta migratoria. La consapevolezza della scelta individuale non esclude però la responsabilità di politica e istituzioni. Chi lascia il paese paga il prezzo della mancanza di prospettive adeguate. Abbandonare i singoli migranti nella loro esperienza all’estero, invece di prevederla e inquadrarla in una prospettiva costruttiva, incrementa piuttosto che ridurre il costo sociale di questo esodo. Perché allora non estendere le opportunità di tirocinio e brevi esperienze di lavoro al periodo post universitario, il più delicato in assoluto per il futuro di carriera dei laureati?
Perché non attivare le istituzioni rappresentative all’estero per raggiungere ed estendere accordi bilaterali e creare opportunità di inserimento lavorativo dei nuovi arrivati, invece di lasciarli in balia del sistema dei visti e di questo o quel datore di lavoro? Perché tutto questo deve essere lasciato all’iniziativa di singole associazioni e al loro ammirabile entusiasmo, invece di essere programmato e discusso nelle sedi competenti? Perché non dovrebbe essere nell’interesse di uno Stato, che su questi giovani ha investito per oltre 20 anni della loro vita, aiutarli a rendere più effettiva e produttiva l’esperienza migratoria, invece di lasciare ciascuno al proprio tortuoso percorso, alla ricerca di un incerto successo, giorno dopo giorno, di fronte ad una distanza più incolmabile e ad un ritorno più incerto?
La via verso i propri sogni, per la maggior parte di noi, è una strada scoscesa, angusta e tortuosa, di cui a stento si vede il prossimo passo: mentre guidavo per la prima volta fuori da Melbourne e guardavo ammutolito quelle incolmabili distanze scorrere dal finestrino, fino all’orizzonte, su strade larghe e vuote, mi ero distaccato per sempre dalla via dei miei sogni. Ora l’unico modo per riavvicinarmi a quella via è il ritorno al mio Paese, l’Italia. Questa è però una via quanto mai erta e impervia, sospesa tra un presente pieno di piccole conquiste e grandi incertezze, e un futuro ancora più vago, come la speranza di un filo teso su questa enorme distanza.
Enrico Moscon
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