Più che raccontare l’emigrazione lo scopo dei media sembra essere quello di sgridare l’Italia
Ci sono tre problemi principali nel modo in cui i media italiani presentano l’emigrazione di oggi.
La maggior parte delle storie di ragazzi italiani emigrati all’estero che si legge sui giornali sono strutturate in base allo schema “In Italia era così, qui invece…”, dove si vanno a sottolineare i lati negativi dell’Italia e i lati positivi del Paese estero. Che sia l’Inghilterra o la Cina non importa: si vive meglio che in Italia. Il racconto della vita in questo Paese non è mai a 360 gradi ma sempre parziale, solitamente visto attraverso le lenti di qualcuno che si è trasferito da appena qualche anno. Qual è l’obiettivo, ci si chiede, di questi articoli? Il loro scopo è raccontare l’emigrazione o ‘sgridare’ l’Italia? In entrambi i casi, credo, ci sarebbero modi più costruttivi per farlo.
Il secondo problema è che, a livello mediatico, l’emigrazione è quasi sempre raccontata attraverso storie personali. Premesso che ogni storia ha il suo valore e ha diritto ad avere il suo spazio, questo rende la narrazione dell’emigrazione un esercizio aneddotico più che una seria e approfondita analisi del fenomeno. Se il percorso di una coppia di ragazzi italiani per ottenere il visto permanente in Australia viene sintetizzata in “Diploma, certificato medico, esame d’inglese, pochi altri documenti, e il visto fu accettato” (Simone Bacchetta, “La nostra vita in Australia è senza fretta e davanti all’oceano. Qui abbiamo perso l’abitudine di preoccuparci”, www.ilfattoquotidiano.it, 29 settembre 2019), senza specificare altro, si fa disinformazione: si rende universale un aneddoto personale e si cancellano le storie di chi (ed è la massa) da anni suda per cercare di ottenerlo, questo visto permanente. Le storie personali sono più umane, e attirano più click verso le proprie pagine di giornale, ma i grandi numeri sono altrettanto indispensabili per spiegare le caratteristiche più generali e profonde del fenomeno migratorio che coinvolge centinaia di migliaia di italiani.
Bisognerebbe, infine, raccontare storie di partenza ma anche storie di ritorno. La nostra è stata spesso chiamata la Generazione Erasmus o la generazione dei Globalisti. Fin da piccoli, siamo stati abituati a partire, a passare dei periodi all’estero, per imparare una lingua diversa, conoscere ragazzi di altri Paesi, studiare o fare qualche lavoretto. Muoversi, soprattutto per chi sceglie l’Europa, non è un big deal. Spesso non si vede il Paese dove ci si sposta come una meta finale, ma solo come una tappa dove trascorrere parte della nostra vita per poi salpare verso chissà dove, oppure tornare a casa. Raccontiamo allora anche di chi è tornato, magari perché l’Italia è la prossima tappa della sua vita da Globalista o magari perché all’estero non è andata così bene. Raccontiamo anche le esperienze negative e facciamo in modo che il rientro non venga vissuto come un fallimento, ma anzi come un possibile primo passo per contribuire al futuro dell’Italia.
L’emigrazione fa parte della natura umana, le persone si sono sempre spostate e continueranno a farlo. Ma i numeri attuali ci suggeriscono che dall’Italia le persone non se ne vanno solo per scelta e spirito di avventura. Bisogna allora capire che cos’è che spinge così tante persone, soprattutto giovani, a lasciare il proprio Paese. Cosa cercano all’estero che in Italia non trovano? Che misure potrebbe mettere in atto l’Italia per farli rientrare?
Sarebbe bello instaurare un dialogo tra noi ragazzi emigrati e le istituzioni: cosa possiamo noi offrire all’Italia dopo tanti anni all’estero e cosa può offrire a noi l’Italia? Alcune regioni avevano iniziato dei progetti in questo senso ma che ne è stato di loro? ‘Brain Back Umbria’, ad esempio, doveva essere un progetto di sei anni (dal 2014 al 2020) ma gli ultimi aggiornamenti sulla pagina Facebook risalgono al 2015. Non basta proporre un bel progetto per prendere i fondi europei, bisogna anche promuoverlo, farlo arrivare ai potenziali beneficiari e portarlo avanti fino in fondo. Altrimenti è un ulteriore spreco di soldi e la conferma dell’idea che “dell’Italia non ci si può fidare”.
Si parla molto di ‘cervelli in fuga’, ma penso che alla maggior parte di noi questa definizione stia stretta. Non si emigra portandosi appresso solo il cervello, ma anche la pancia, il cuore, le gambe, ogni parte di noi. Io, ad esempio, sono più un cuore in fuga che un cervello in fuga, sono andata all’estero per seguire l’amore e sono stata fortunata di essermi ritrovata in un Paese come l’Australia dove ci sono anche buone possibilità lavorative. Oggi sono una dottoranda e vedo che nel campo della ricerca (quello per cui era stata coniata l’espressione “cervelli in fuga”) andare all’estero è uno step naturale per chi vuole continuare la carriera accademica. Andare all’estero non è una fuga ma una necessità per continuare a formarsi e migliorare il proprio ‘status’ in un contesto internazionale. Nei numeri dell’emigrazione italiana di oggi, ci sono accademici, ci sono Globalisti, ma ci sono anche tante, tantissime persone per cui spostarsi non è la normalità bensì una scelta semi obbligata.
L’esperienza migratoria poi va a fasi. C’è lo slancio iniziale in cui si è totalmente proiettati in avanti e non si pensa minimamente a guardarsi indietro. Poi arrivano dei momenti in cui anche la vita all’estero diventa vita quotidiana, con la sua routine e le sue magagne. Ci sono i rientri in Italia (in cui si è “a casa” o “via da casa”?) e le contrastanti emozioni che si provano ogni volta: da una parte l’amarezza di dire arrivederci a chissà quando a parenti ed amici, dall’altra il sollievo di poter sfuggire a tanti problemi perché si vive dall’altra parte del mondo.
È egoismo? Va bene così? La risposta a queste domande, per quanto mi riguarda, oscilla a seconda dei periodi. Inevitabilmente il ritorno è un aspetto presente nelle mie riflessioni (quasi) quotidiane. Sento dire tante volte che emigrare oggi non è come emigrare una volta perché è facile sentirsi, è più facile vedersi. Sono d’accordo. Ma non del tutto. È innegabile che la tecnologia abbia reso i contatti più facili, i trasporti anche sono più veloci ed abbordabili di un tempo, però tutt’oggi emigrare significa non vivere più la quotidianità di chi si lascia nel proprio Paese. Inevitabilmente i legami si modificano. Sentirsi per telefono e vedersi una volta ogni 1-2 anni permette di nascondere tante cose, cosa che avveniva con i migranti di una volta e avviene tutt’oggi. Come un migrante arrivato nelle periferie di Melbourne nel 1950 mentiva sul fatto di essere finito in un Paese sperso nel nulla a vivere in una casa di lamiera circondata da campi di fragole per non ammettere neanche a se stesso di aver forse commesso uno sbaglio, anche oggi molte persone nascondono i lati negativi della loro esperienza per non sentirsi gli unici che sono andati all’estero e non ce l’hanno fatta.
Dovremmo pensare al rientro non come fallimento, ma come passo per tornare a contribuire al futuro del nostro Paese
Tanti sono insomma gli aspetti della migrazione su cui resta ancora da gettare luce. Noto che molto spesso si parla dell’emigrazione solo per motivi di lavoro ma perché non chiedersi quali siano le altre motivazioni che spingono gli italiani ad emigrare? Qual è la condizione psicologica che li accompagna prima della partenza? Quali sono le sfide psicologiche di lasciare il Paese di origine e di cercare di ricostruire la vita altrove? Come vengono gestiti i rapporti familiari e di amicizia a distanza? Che rapporti rimangono con l’Italia?
E nel porre queste questioni anche le istituzioni giocano un ruolo. Fare in modo che i propri cittadini non partano allo sbaraglio con il rischio di finire vittima di sfruttamento o altri abusi è per esempio importante, ma al momento questi servizi sono lasciati per lo più o ad agenzie con un loro tornaconto economico o a carico di associazioni di volontari come Nomit.
Un impegno concreto delle istituzioni italiane poi, potrebbe anche essere quello di facilitare una migrazione di rientro, il che sarebbe un grandissimo vantaggio per il Paese. Personalmente, se ci fossero le giuste opportunità di inserimento lavorativo, sarei più che disposta a tornare in Italia. Ritengo che molte delle capacità che ho acquisito stando in Australia (in primis, l’apertura mentale verso culture e modi di fare differenti) possano davvero essere utili al mondo del lavoro italiano.
Nonostante tutto, consiglierei a chiunque un’esperienza di vita all’estero, utile soprattutto a livello di crescita personale. Sarà scontato da dire, ma l’apertura mentale e la capacità di adattamento che ti insegnano periodi trascorsi in un altro Paese sono lezioni di vita impagabili che non possono essere imparate su nessun libro e nemmeno online!
Ovviamente è molto diverso decidere di partire per sei mesi o un anno oppure decidere di lanciarsi in un’avventura che (almeno nei programmi) si vuole definitiva. Gli accorgimenti pratici sono gli stessi (informarsi sul funzionamento del mondo del lavoro, sui propri diritti e doveri in quanto immigrato, sul sistema sanitario e di welfare, sulla rete istituzionale italiana presente in quel Paese, ecc.) ma il carico psicologico delle due esperienze è molto diverso. A questo però non credo ci si possa davvero preparare in anticipo, sono cose che si dovranno vivere sulla propria pelle e che ognuno vive in modo differente.
È bene però partire consapevoli, pronti ad ascoltarsi e ad essere onesti con se stessi per capire quello che dell’esperienza all’estero sta funzionando e quello che invece non fa per noi.