Una riflessione collettiva per cambiare il racconto che si fa di noi
Da tempo nell’opinione pubblica italiana il racconto dell’emigrazione italiana ha connotati retorici ben definiti, condividi la descrizione che i media danno del fenomeno?
Per niente. Ho letto per lo più analisi e descrizioni semplicistiche, sia da chi osserva il fenomeno dall’Italia, sia anche da chi è andato via, cosa che mi lascia contrariato. Per quanto i dati oggettivi siano generalmente riportati in maniera fedele e ottengano un adeguato livello di attenzione mediatica, ritengo che il discorso sulla recente emigrazione italiana sia divenuto ostaggio di una falsa dicotomia che offusca le reali dimensioni e ripercussioni psico-sociali delle persone coinvolte, di chi lascia e di chi viene lasciato.
Da come lo intendo, il filo narrativo dell’ultima generazione di emigrazione italiana scorre su due sentieri a volte convergenti di compassione capziosa e finta indifferenza che sul piano retorico vengono variamente manipolati dai media a scopi politico-pubblicitari. Il sentiero compassionevole è quello cosiddetto dei cervelli in fuga, usato come veicolo di critica al sistema Italia, come la prova vivente che il nostro Paese non funziona. Senza che coloro i quali usano questa formula ne siano necessariamente consapevoli, l’argomento dei cervelli in fuga si basa sul famoso ragionamento “exit-voice” dell’economista Albert Hoffman, il quale nei decenni dell’ultimo dopoguerra così classificò le uniche opzioni disponibili a coloro i quali dissentono contro un determinato sistema di potere, sia pubblico che privato, sia democratico che autoritario. Per Hoffman, chi non trova adeguato spazio nel sistema ha due scelte che possono essere alternative o graduali: o protesta apertamente contro il sistema e cerca di cambiarlo da dentro, o esce dal sistema, direttamente o comunque dopo avere tentato invano e quindi perso la speranza di cambiarlo a proprio favore.
D’altro canto, il binario di indifferenza retorica ha una matrice vagamente patriottica e conservatrice, dato che si basa sulla reazione pilatesca di coloro i quali marchiano frettolosamente chi lascia l’Italia come opportunisti (se sono di classe medio-alta) oppure mezzi deficienti (se sono di modesta estrazione sociale).
In sostanza, ciò di cui sento la mancanza in questo dibattito è la carenza di focus su quello che ogni emigrazione giovanile volontaria in tempi di pace è in ultima istanza, ovvero la rottura del rapporto fiduciario tra generazioni che fa seguito a processi prima di differenziazione e poi di svalutazione interna del mercato del lavoro. Questa graduale rottura dunque evidenzia la breccia nella struttura portante del contratto sociale tra individui, istituzioni e corpi sociali intermedi.
Il discorso sull’emigrazione è ostaggio di una falsa dicotomia
Anche nel dibattito politico il tema dell’emigrazione è sempre più in primo piano, ma la conoscenza che la politica ha del fenomeno appare limitata, in che modo suggeriresti alle istituzioni di inquadrare il tema dell’emigrazione?
Facendo seguito al ragionamento di cui sopra, ritengo che sarebbe più fruttuoso inquadrare il tema dell’emigrazione come un problema di mobilità sociale intergenerazionale, alla stregua del dibattito su lavoro e stato sociale a tutto tondo, piuttosto che farne un tema meramente di commercio estero e sviluppo economico, quindi diluendo l’emigrazione nel calderone del prodotto interno lordo e liquidando le sue implicazioni sociali in ambito individualistico.
A livello prettamente istituzionale, mi sentirei meglio rappresentato e tenuto in considerazione se le politiche sull’emigrazione facessero parte in primis dei vari portafogli ministeriali che si occupano a vario modo di assistenza sociale, lavoro e patrimonio culturale, mantenendo in secondo piano i portafogli commerciali e diplomatici. Meglio ancora, dovrebbe esistere un ministero della mobilità sociale che comprenda l’intero ciclo migratorio socio-geografico degli italiani di nascita e non, ovvero emigrazione, rientro ed immigrazione di stranieri.
Ti senti un cervello in fuga? Come descriveresti la tua esperienza di emigrazione?
Anche se lavoro come docente universitario, non mi ritengo e non mi piace essere descritto come un cervello in fuga. Ritengo che questa dicitura sia limitante e approssimativa, in quanto esclude chi non svolge professioni intellettuali o possiede titoli di studio superiori. Inoltre parlare di cervelli in fuga opera una cesura completa e falsa tra le precedenti generazioni di emigrati italiani e quella attuale, lasciando per strada i movimenti e momenti di transizione tra le due facce d’una stessa medaglia, che altro non è che il surplus di popolazione produttiva in un contesto di svalutazione interna di cui l’Italia ha sofferto in vario grado dalla riunificazione ad oggi, con l’eccezione del decennio del 1960. Pur rifuggendo da eccessivo riduzionismo e facendo ricorso ad un tecnicismo col senno di poi, se proprio dovessi dare un titolo alla mia quindicennale esperienza di emigrazione, questo sarebbe uno di rivalutazione estrinseca. Tutto ciò nella piena consapevolezza che ogni processo di rivalutazione non è di per sé necessariamente positivo, ossia non sempre aggiunge “valore” in senso lato, ma può anche toglierlo. Oppure può mutare la natura e composizione di ciò che rappresenta e viene stimato come valore legato a qualsivoglia esperienza individuale e collettiva.
Il pensiero del ritorno affiora dopo un po’ dai gorghi del subconscio
Tornare o non tornare, il tema del ritorno è un aspetto presente nella tua riflessione personale sulla tua esperienza migratoria?
Fatalmente il tema del ritorno pervade la mia traiettoria migratoria, seppure in dosi e dinamiche diverse lungo l’arco della mia esperienza. Col senno di poi, ho compreso che nei miei primi anni all’estero il ritorno non era apertamente preso in considerazione in quanto schizofrenicamente dato per scontato o assolutamente negato, a seconda del contesto emotivo del periodo più intenso, difficile ed esaltante della mia emigrazione. Questa peraltro è una dinamica che ho riscontrato in molti altri che hanno condiviso la mia esperienza, a prescindere dalla loro estrazione culturale e dalla loro situazione personale. Certo la geografia è una vera tirannia, dato che stabilirsi negli Stati Uniti, Cina e Australia è ben diverso che rimanere in Europa, quando puoi tornare a “casa” anche solo per un fine settimana. Questo maggiore prezzo da pagare in termini di distanza ha di certo velocizzato ed aiutato la maturazione e cristallizzazione della mia esperienza migratoria dopo i primi anni di permanenza in Australia, direi all’incirca nell’arco di cinque anni, quando poi assunsi la doppia cittadinanza. Ora che mi accingo a celebrare il mio decimo anno di ininterrotta residenza in Australia, mi sento di affermare che il pensiero del ritorno è pienamente riaffiorato dai gorghi del mio subconscio. Non dovendo più lottare per la quotidiana sopravvivenza da italiano all’estero e non sentendomi più spinto a cercare un’auto-giustificazione e validazione per la mia scelta di partire, questo comporta un agrodolce sentimento di piena responsabilità individuale, ma anche di restringimento delle opzioni. Con l’età, si sa, si diventa sempre più refrattari a cambiamenti e avventure fini a se stessi. Questa naturale maturazione porta alla consapevolezza che più a lungo si rimane in un posto e più arduo diventerà lasciarlo.
Riterresti utile un impegno da parte delle istituzioni per rendere più informati coloro che vorrebbero tentare l’esperienza migratoria, sia sui Paesi dove desiderano spostarsi, sia sui servizi che le istituzioni italiane all’estero offrono?
Sì certamente, ma informazione ed educazione per vivere all’estero devono essere strumenti di miglioramento della mobilità sociale di rientro in Italia e non lo scopo ultimo dell’impegno delle istituzioni italiane all’estero. Ovvero, la bussola di tali istituzioni deve essere la costruzione ed il mantenimento di una reale opzione per l’efficace rientro degli italiani all’estero, non la suturazione del loro cordone ombelicale italiano.
Emigrazione italiana come problema di mobilità sociale intergenerazionale
Ritieni che le Istituzioni italiane debbano impegnarsi per definire progetti concreti che facilitino il rientro e il rinserimento sociale di chi ha vissuto anni all’estero?
Sì e personalmente sarei interessato a concrete iniziative volte a crearmi opportunità di rientro.
Consiglieresti a un giovane italiano di provare a fare un’esperienza di vita all’estero? Se sì, perché? Con quali accorgimenti?
In generale sì, ma non bisogna cadere nella trappola dello snobismo di chi ce l’ha fatta all’estero e ritiene che chi rimane è un ottuso provinciale. Vivere all’estero non fa per tutti e non è consentito ad ognuno, e farlo non significa essere più in gamba. Conta farlo bene, non a tutti i costi. In quanto agli accorgimenti, mi limito a suggerire di fare di tutto per non bruciare completamente i ponti con l’Italia, non importa quanto disincantati e amareggiati con l’Italia e gli italiani si sia in partenza. Il tempo e la distanza poi renderà tutto questo un lontano ricordo.
Che opinione hai delle Istituzioni italiane all’estero? Comites, Cgie, rete diplomatica, istituti di cultura, ecc.
Purtroppo la mia esperienza personale e valutazione esterna dell’operato delle istituzioni italiane all’estero è piuttosto deficitaria. Si potrebbe fare molto di più e meglio di glorificate sagre della porchetta. Dal punto di vista dei servizi amministrativi il mio giudizio è in generale neutro se non positivo.
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(IL GLOBO – Eureka, giovedì 17 ottobre 2019)