Uguali ma non troppo

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Italiani in Europa e italiani nel mondo: quali disparità nell’accesso ai diritti

 

Fin dall’istituzione della Comunità Europea, quello dell’emigrazione italiana all’estero, che in precedenza era un mondo variegato ma comunque eterogeneo nel proprio rapporto con la madrepatria, ha subito una notevole differenziazione. Una diversità di status, sul piano dei diritti, che non è mai stata affrontata dalle Istituzioni italiane, né sottolineata dalle diverse forme di rappresentanza degli italiani all’estero.

Come accade ogni volta, all’avvicinarsi delle elezioni italiane in molti tra i rappresentanti politici esteri, sembrano ricordarsi della bassissima adesione all’Aire (l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), soprattutto tra coloro che appartengono alla più recente ondata migratoria. Un’ondata che non ha investito solamente l’Europa, ma che, in forme sempre più consistenti, sta lasciando l’Italia diretta verso Paesi extraeuropei. Tra questi, ci sono i Paesi dell’America Latina, gli Stati Uniti, alcuni Paesi asiatici, ma anche la Nuova Zelanda e ancor di più l’Australia.

Ciò che però differenzia profondamente il movimento interno dell’Ue rispetto all’esodo degli italiani verso Paesi extraeuropei, e che non si vuole vedere,  è la radicale diversità di diritti  che i cittadini italiani che espatriano riescono a conservare. Mentre infatti in Europa –  in Paesi come la Germania, la Spagna, la Francia, la Svezia o fino a che non verrà finalizzata la Brexit, anche la Gran Bretagna – i cittadini italiani godono pienamente degli stessi diritti di cui godevano in Italia – civili, sociali, politici – la situazione di coloro che lasciano i confini europei, è molto più incerta. In quest’ultimo caso infatti, gran parte dei diritti, quali l’assistenza sanitaria pubblica, l’accesso agli ammortizzatori sociali, l’integrazione che passa per le strutture pubbliche di aiuto al lavoro, finanche il supporto economico per disoccupati, famiglie, asili nido, affitti, non sono assolutamente più garantiti a coloro che escono dall’Europa. Un tema, questo, che differenzia molto la condizione degli italiani all’estero e che non si è finora considerato di comprendere anche all’interno dell’Anagrafe a loro dedicata. Ad esempio, uno dei motivi per cui in molti non si iscrivono all’Aire, con il rischio recentemente sottolineato dai deputati del Pd di vedersi applicata anche una doppia tassazione una volta rientrati in Italia, è quello di perdere automaticamente l’assistenza sanitaria pubblica in patria. Questo principio, visto che non si pagherebbero più le tasse in Italia ma nel Paese ospitante, ha una sua equità, ma allo stesso tempo dà per scontata la possibilità per chi vive all’estero di accedere alla sanità pubblica nei Paesi di cui si è contribuenti. Per un cittadino italiano che si trasferisce in Francia questo accade, visto che la perdita dell’assistenza sanitaria pubblica in Italia è compensata con l’acquisizione di quella francese. Ma ad un cittadino italiano che si trasferisce in Australia, ad esempio, l’assistenza viene garantita solamente per i primi 6 mesi di soggiorno, poi decade, almeno finché non si accede alla residenza permanente o alla cittadinanza, eventualità che purtroppo le recenti politiche migratorie adottate dal governo australiano rendono sempre più lunga, difficile e incerta.

Discorso molto simile potrebbe adattarsi anche a molte altre tipologie di diritti, alimentando una disparità che colpisce nettamente coloro che risiedono fuori dai confini dell’Ue e che, all’interno del variegato mondo degli italiani all’estero, determina di fatto una differenziazione tra cittadini italiani all’estero di serie A e cittadini italiani all’estero di serie B, a seconda del Paese di emigrazione in cui si approda. Di questa situazione i parlamentari e comitati di rappresentanza dei cittadini all’estero sembrano non curarsi, salvo poi lamentare una poca adesione all’Aire quando si avvicinano le elezioni, a cui solo chi è iscritto può partecipare. Certo, l’iscrizione all’Anagrafe determinerebbe almeno l’accesso ai diritti politici, grazie ai quali in fondo si potrebbe fare pressioni per chiedere maggiore attenzione alle istituzioni italiane, ma è pur vero che, al momento, per molti, il gioco non sembra valere la candela e viene in più percepito anche come una sorta di ricatto. La condizione di estrema precarietà insita nelle politiche migratorie australiane, che cambiano di tre mesi in tre mesi a seconda degli umori politici, infatti, non permettono nemmeno quel minimo di programmazione che potrebbe portare i nuovi arrivati ad essere interessati all’accesso al voto e ai servizi consolari che l’iscrizione all’Aire concede, in cambio della rinuncia all’assistenza sanitaria in patria. Accedere a quest’ultima quando si rientra anche solo temporaneamente in Italia infatti potrebbe fare comodo, tenuto conto dei proibitivi costi dell’assistenza privata australiana.

 

Luca M. Esposito

(Eureka, IL GLOBO, giovedì 6 luglio 2017)