L’odore acre della muffa umida gli inondava le narici, si sentiva molto scosso, incredulo. Come era potuto accadere? Lui non era proprio nessuno! I gendarmi l’avevano strappato dai suoi studi con forza, come un criminale pericoloso. Caricato su un carro senza dire una parola l’avevano sbattuto in quella disgustosa cella maleodorante di Palazzo Madama. “Vedrai i giudici domani! O forse doman l’altro!” disse uno di loro richiudendo la porta con un ghigno. E ora era lì, solo.
Il buio della grande stanza era squarciato dai fasci di luce che filtravano dalle alte vetrate, i suoi carcerieri lo condussero all’interno e lo fecero sedere di fronte ad un lungo tavolo color mogano. Stavano ad osservarlo, in abiti ufficiali, tre giudici della Sacra Rota, che appena Raffaello si sedette lo interrogarono: “Siete voi Rafaele Carboni, di Urbino, figlio di Biagio Carboni?”. “Sono io” rispose Raffaello. “E perchè signor Carboni, vi impicciate di cose che non sono affar vostro? Tramando con degli scomunicati contro il nostro Padre Santissimo, Guida di Santa Romana Chiesa?”. “Ma io non ho fatto nulla di tutto questo!” rispose Raffaello con un filo di voce. Sentiva le forze che lo abbandonavano. Denunciato per cospirazione? Ma come era potuto accadergli? E chi poteva averlo denunciato? “Negate quindi di conoscere il Monsignor De Mourville sospettato per scellerate idee repubblicane?” “Non lo nego, signore” rispose Raffaello, “ma nego decisamente di essere cosciente delle idee di costui. La mia unica colpa potrebbe essere quella di aver favorito, con la sua compagnia, l’apprendimento della lingua francese, della quale necessito di pratica”. “Bene!” Disse uno dei
giudici. “Portatelo via!”. “Ma signore!…” Raffaello provò a protestare, ma le guardie lo tirarono su di peso e lo trascinarono via, risbattendolo nella sua cella nonostante egli provasse strenuamente a resistere. Quella stessa notte, mentre cercava di appisolarsi nello scomodo giaciglio di paglia, sentì il chiavistello della porta della cella aprirsi. Entrarono due uomini, non erano i suoi abituali carcerieri. “Raffaello Carboni?”, chiesero. “Sono io!” rispose Raffaello stupito dell’insolita visita. “Devi venire con noi” gli intimarono. “Dove? di grazia!” chiese Raffaello sempre più scosso. “Non ti riguarda!” risposero i due. Lo tirarono in piedi, gli infilarono un cappuccio in testa e lo trascinarono fuori.