Guarda lontano la ragazza del murales, disegnato da Alice Pasquini, che si staglia sulla facciata laterale del Coasit di Melbourne, dove si è svolto qualche settimana fa il dibattito sul nuovo lavoro curato dagli storici Simone Battiston, della Swinburne University e di Stefano Luconi, dell’Università di Firenze. E guarda lontano anche Autopsia di un diritto politico. Il voto degli italiani all’estero nelle elezioni 2018, nonostante un titolo che sembra non rispecchiarne pienamente gli orizzonti.
Più che un intervento su un corpo ormai esangue infatti, l’analisi di Battiston e Luconi, arricchita dalla partecipazione di numerosi autori da tutti gli angoli della circoscrizione estero, offre uno sguardo profondo su un diritto che, seppur in trasformazione, si rivela ancora vivo e carico di significato. Perché nonostante le molte contraddizioni e le forti criticità, legate alle modalità di espressione del voto e a una partecipazione in diminuzione, il diritto politico garantito agli italiani all’estero dimostra di essere oggi, in un contesto mondiale sempre più globalizzato, una risorsa importante per l’Italia come nemmeno i suoi fautori potevano cogliere in tutta la sua ampiezza quando lo idearono.
Sebbene infatti la domanda di James Panichi, (“che cosa possono volere gli elettori italiani all’estero, siano essi di vecchie e nuove mobilità, dallo Stato italiano?”), rilanciata proprio da Battiston in chiusura del suo capitolo dedicato al voto in Australia, sembri cogliere il punto, in realtà mi pare lo manchi completamente.
“Niente”, è infatti la risposta a questa domanda se il diritto politico insito nell’espressione di voto è confinato a un mero sistema di scambio tra rappresentanti e rappresentati. “Molto”, se si guarda invece a un diritto nella sua forma più alta, a un principio che vede nella partecipazione alle scelte politiche della nazione di cui si è cittadini un dovere e un’opportunità. E “molto”, anche in termini pratici e meno ideali, offre all’Italia l’attiva partecipazione politica di coloro che risiedono fuori dai confini nazionali, soprattutto delle centinaia di migliaia di giovani che in questi ultimi anni si sono dispersi per il mondo e che possono fornire un contributo di alto spessore, non solo al dibattito politico italiano, ma anche alla visione futura della nazione. Un bagaglio di esperienze, un’immagine del mondo e una conoscenza di diverse realtà, che potrebbero apportare linfa vitale e un ampliamento degli orizzonti, soprattutto ora che le distanze spaziali si accorciano sempre di più e che le esperienze di mobilità sono fatte da continue partenze e continui ritorni.
E se è vero che, come giustamente rimarcato da Fabrizio Venturini durante la trasmissione Le regole del Caos, andata in onda su rete italia , “non c’è qualcuno che non ha bisogno di diritti politici”, a un’analisi più approfondita, come quella che ha il merito di fornire il capitolo di Battiston, una categoria di persone che hanno un forte bisogno di rappresentanza, anche nel senso più ampio del termine, c’è eccome.
Sono proprio i giovani e le famiglie che a migliaia stanno lasciando l’Italia e che, soprattutto in Paesi sempre più chiusi nelle proprie politiche migratorie come l’Australia, vivono in uno stato di limbo. Residenti di serie B nel Paese ospitante, da cui il termine “nuovi meteci” utilizzato da Peter Mares e preso in prestito dal filosofo americano Michael Waltzer, e che potrebbero diventare cittadini di serie B anche per il proprio Paese di origine, se i critici del voto all’estero avessero la meglio privandoli dei diritti politici.
Sebbene infatti sia condivisibile l’esigenza di discutere sulle modalità in cui tale diritto viene espresso, in un contesto come quello odierno, dove le grandi migrazioni portano con sé il costante rischio di allargamento delle disuguaglianze sociali ed economiche, minare le basi di un diritto politico con leggerezza rischia di avere gravi ripercussioni. Prima di farlo dunque, sarebbe bene infatti ampliare lo sguardo rispetto a quella che è la propria limitata percezione personale. Se una larga parte di coloro che dall’estero hanno richiesto e ottenuto la cittadinanza italiana per discendenza, o se un’ampia fetta di coloro che vivono all’estero ormai da decenni mantenendo la cittadinanza italiana, non vedono il valore che questo diritto gli consegna tra le mani, allora sarebbe forse il caso che siano loro stessi a ripensare alle motivazioni per cui hanno scelto di mantenere o richiedere una cittadinanza, che è molto di più di un visto turistico allungato, e comporta diritti e doveri, entrambi preziosi e di alto significato.
Invece che spingere perché coloro che comprendono questi valori e li rispettano, come i veri cittadini dovrebbero fare, siano privati di un diritto, forse farebbero meglio a rinunciare loro alla propria cittadinanza. Visto che non ne colgono il senso più profondo. A tutti gli altri resta invece la responsabilità – in un mondo dove i diritti, siano essi politici, sociali o civili sono sempre più in pericolo – di mantenere vivo con la partecipazione uno dei valori fondanti dell’essere cittadini. Per non farlo finire davvero sul tavolo autoptico.
Luca M. Esposito
(IL GLOBO, Eureka – giovedì 6 dicembre 2018)