A casa tutto bene: le canzoni che Calcutta non ha scritto sull’emigrazione

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Bisogna sempre tenere in considerazione, quel nostro doppelganger che non è partito.
Non è che bisogna rifarsi a chissà qualle poetica alta per capire cosa intendo, ricorrere a chissà quale personaggio della narrativa classica greca per significarselo; basta Gwyneth Paltrow in Sliding Doors.

Quando siamo partiti per non tornare o, almeno, per non tornare presto, siamo saliti su una metropolitana metaforica che non ha caricato il nostro “io altro”, che è rimasto lì, sulla “banchina Italia”.

Tutti, pizzaioli, lavapiatti, camerieri, studenti universitari o skillati d’ogni forma, tutti noi nuovi metic d’Australia, qualche volta abbiamo pensato “Che sarebbe successo se fossi rimasto?”, “Cosa starei facendo se non fossi mai partito?”.

Bhe, probabilmente, stareste ascoltando Calcutta.

Calcutta è un cantautore di Latina che ha scritto un album “underground” chiamandolo “mainstream”; due espressioni in antitesi quando il vero argomento in discussione è l’assenza di contenuti. Ma Calcutta il contenuto ce l’ha, ed è pressappoco il disagio, o almeno cosi si legge su La Repubblica.
Le canzoni di Calcutta parlano di Gaetano, di Frosinone e degli Arbre Magique, per poi concatenarsi in frasi assolute, brevi periodi che danno suggestioni sempre diverse e adattabili alle situazioni più variegate; alcune forse anche al “mal d’emigrazione”. Dopotutto Edoardo D’Erme, questo il suo vero nome, con la saudade ci dialoga in quanto amante di Caetano Veloso e, anche se la sua Latina la lascia solo per restare a un tiro di Pontina, l’alienazione della “vita nel posto altro”, la sa evocare più facilmente di alcuni suoi colleghi che ci han provato nello specifico.

Non è che non ci piacciano i vari Dimartino o Brunori sas, ma l’alienazione di Calcutta è più globale e passa anche gli stretti controlli di Tullamarine. Calcutta non parla di cose che non conosce, non ci prova, parla di cose che conosce benissimo, cose che conosce e spesso capisce solo lui ma di cui può squadernare l’essenza. Prima di arrivare all’essenza delle cose però, c’è l’imperfezione della realtà con cui tutti dobbiamo misurarci: tocca a Calcutta quando scopre che “Non è Rio de Janeiro/ma c’è un clima fantastico”, tocca a noi quando ci misuriamo con le varie difficoltà dell’integrazione e tocca anche al nostro doppelganger lasciato su quella banchina Italia, con i soliti problemi irrisolvibili che quando l’emotivita si dipana ci fanno chiedere “Cosa mi manchi a fare.”.
Fabrizio Venturini