Mi sono laureato in economia per lo stesso motivo per cui ho abbandonato il calcio a 17 anni, dopo l’infortunio al menisco: evitare, il più posibile, il dolore.
È sempre e solo la paura del dolore che ti trattiene dall’estro; sia quando rinunci a quella finta in più sul difensore centrale dal passo pesante, che quando sentenzi, alla fine di un’estate più corta delle altre: “di ‘Lettere e Filosofia’ non ci si campa”.
Poi son venuto a Melbourne, dove non si campa neanche di “Economia” a meno che non l’hai studiata in un’università australiana, pagando quelle maggiorazioni riservate agli studenti internazionali, che fanno del Victoria l’Education State e al dolore, gli son finito in bocca. Mi sono improvvisato carpentiere qui e questo mi ha dato un principio d’ernia; arrotondo correggendo i compiti di bambini che studiano italiano come seconda lingua, così posso dire ai miei amici in Italia che vivo alla Henry Miller mentre invece, più che altro bestemmio e bevo come Bukowski, ma probabilmente scopo molto meno e mi sento solo come Sem Selvon. Alla fine pare si campi di letteratura; il problema è che avevo frainteso.
Così, a 32 anni, son tornato a giocare a calcio nella speranza di incontrare qualche centrale australiano, con 46 di piede e che poggia sempre il tallone prima della punta, a cui fare quelle finte che mi son risparmiato perché ormai non so neanche più a che cosa voglio sfuggire, se al dolore o alla paura, ma quale che sia delle due, me ne smarcherò con la filosofia del numero dieci.
Per raggiungere il campo di allenamento di Albert Park, devo percorrere tutta Fitzroy street, una strada che più volte nella storia ha provato ad essere un boulevard di ristoranti fatto per raggiungere le belle spiagge di St. Kilda, ma che è sempre finita per essere un ricettacolo di prostitute e uno dei centri di spaccio di droghe più importanti di Melbourne, con tutto ciò che ne consegue. Non si può biasimare però Fitzory street, che ha sempre e solo seguito la bellezza, ma con poca fantasia.
Mentre cammino tra il puzzo di piscio che sale dalla strada, affino il mio dribling schivando le siringhe usate che imperlano il marciapiede del Gatwick, l’”albergo degli orrori” più volte celebrato dalle cronache. Nella fermata del tram subito di fronte un bogan col taglio alla moicana, urla insulti incomprensibili ad un aborigeno che fatica a tenersi su i pantaloni con l’elastico usurato, che avrà trovato abbandonati fuori qualche Op Shop anche se, va detto, non si sta applicando particolarmente per salvare la dignità delle pubenda. In quella fermata del tram, nel mezzo della most liveable city in the world, oltre che per quei tossici c’è spazio anche per una vecchina, seduta sulla panca tra i due che, quando l’aborigeno risponde agli insulti lanciando verso il bogan un manico di scopa che usava come bastone da passeggio, stringe a se la nipotina, in un gesto di vero e proprio terrore.
Io e quella vecchina andiamo in due direzioni opposte.
Lei aspetta il tram per raggiungere Brighton Beach, con le sue belle ville sul mare e le cabine colorate sulla spiaggia, una delle quali è proprio sua ed un giorno, toccherà a quella nipotina far riverniciare ogni tre mesi per difenderne il valore iconico dalla salsedine. Io invece vado verso il parco, a prepararmi per una partita che vede opposti una squadra di muratori italiani che lavorano a nero nei cantieri di Geelong, per aggirare i limiti dello student visa, è una selezione venezeluan-colombiana di autisti uber, con il visto turistico e il tocco vellutato.
Non son fatte per incontrarsi le nostre strade, a meno che, quella signora ora schiacciata dalla sintesi delle criticità sociali australiane, non voglia rinfrescarla subito dopo l’estate la sua cabina di Middle Brighton, in tal caso spero non sia la proprietaria di quella con la bandiera aussie dipinta sopra, perché non sono bravo a ricalcare le stelline.
Una telefonata mi fa vibrare la tasca: è il Dovere che chiama. Come “Dovere” infatti ho salvato il numero del mio capo cantiere che, dato il mio leggero ritardo, è preoccupatissimo per l’eventuale inadeguatezza del riscaldamento. La testa però, è ancora alla scena di prima e anche se le direzioni mie e della vecchina sono opposte, chi ha lasciato il proprio paese pe trovare un posto da chiamare “casa” è abituato alle deviazioni paradossali.
“Aspettiamo il tram insieme, che ne pensa?”, le dico sedendomi di fianco a lei, ed evitando di mettere troppo broken nel mio english.
Tra i due è ancora un tripudio di “cunt” e “scum” ma la signora è visibilmente più rilassata; arriva il 16 e io decido di salire e fare una fermata con lei.
“Grazie”, mi dice mentre sistema la nipotina sui sedili, “Melbourne sta impazzendo” aggiunge mentre sullo schermo del mio cellullare, impostato su silenzioso, continua a lampeggiare il nome “Dovere”.
“È incredibile come sia peggiorata questa città da quando abbiamo fatto entrare tutti questi immigrati.”.
Il tram raggiunge la fermata successiva e io, capisco che è il momento di scendere.
The Girgentini
Picture by Seb (Flickr.com, Creative Commons)