Dottorato in Australia – Tra opportunità prestigiose e sfide quotidiane

melbourne university

Roberto Bonelli è nato e cresciuto a Modena, in Emilia Romagna, e ha studiato Statistica all’Università di Bologna. È venuto in Australia per la prima volta nel 2014, in occasione di un progetto di scambio con l’Università di Melbourne. Quando è arrivato, a luglio di due anni fa, si è trovato subito benissimo. Una sua amica che era già qui lo ha aiutato a trasferirsi in casa con lei e altri ragazzi, che sono tuttora i suoi coinquilini, i suoi migliori amici e alcuni di loro anche i suoi colleghi.

Tutto è cominciato con

lo scambio ‘Overseas’

Il suo scambio con la Melbourne University è durato un semestre, durante il quale Roberto ha sostenuto gli ultimi esami che gli mancavano alla laurea. La sua esperienza universitaria è stata buona, ma non ha costituito un arricchimento didattico rispetto alla formazione ricevuta in Italia. Quello che Roberto meno apprezza dell’Università australiana è la pressione psicologica esercitata sugli studenti attraverso consegne, scadenze e tempi serrati e, in definitiva, l’eccessiva importanza data alle procedure e alla forma, spesso a scapito del contenuto. Possiamo dire che da questo punto di vita l’Università australiana tende, a suo parere, ad avere un volto meno ‘umano’ di quella italiana, che pretende dai suoi studenti una conoscenza solida e per questo concede loro il tempo necessario per acquisirla e la valuta a 360 gradi sia con prove orali che scritte. A rendere l’esperienza piacevole e preziosa hanno contribuito soprattutto l’entusiasmo di trovarsi dall’altra parte del globo in una città bella, vivibile e dinamica come Melbourne, la compagnia di amici e la disponibilità dei colleghi, ma anche il campus universitario con spazi, infrastrutture e tecnologie moderne e accessibili che facilitano lo studio individuale e collaborativo.

Concluso lo scambio, seguendo i passi dei suoi coinquilini, Roberto ha fatto richiesta per poter scrivere la tesi di laurea specialistica all’estero, presso un istituto di ricerca medica in collaborazione con l’Università di Melbourne, il Walter and Eliza Hall Institute of Medical Research, che si occupa di Bioinformatica (Statistica applicata al genoma umano). La sua ricerca si è concentrata sull’analisi di un dataset sulla malaria in Tailandia. L’obiettivo era riuscire a capire perché, pur essendo questo un Paese in cui tale malattia è stata quasi completamente eradicata, in alcune zone continua a persistere. I risultati del suo studio hanno permesso di individuare la causa di questo problema nell’abitudine degli abitanti del posto di spostarsi per far visita ai loro parenti che durante i mesi estivi lavorano come braccianti agricoli in Birmania, dove vengono contagiati.

Una volta conclusa la sua tesi, Roberto ha ricevuto dal supervisor australiano la proposta di iniziare un PhD presso lo stesso istituto, con uno studio che si sarebbe focalizzato sulla genetica dietro a una malattia rara degli occhi chiamata MacTel e sull’effetto di singoli polimorfismi nel DNA umano sui geni. La decisione è stata presa facilmente e con entusiasmo più che altro per timore di rinunciare ad un’eccezionale occasione di crescita accademica, professionale e personale di un certo livello, ma non è stata priva di ripensamenti, sorti prevalentemente per l’entità dell’impegno preso e per la dubbia utilità di un PhD in ambito statistico in vista di un impiego professionalmente ed economicamente soddisfacente.

Le riflessioni di un ‘cervello non proprio in fuga’

Durante il dottorato, Roberto ha avuto la possibilità di notare la grande differenza tra Italia e Australia in ambito accademico: mentre la realtà italiana – che definisce locale, ovattata, fatta di piccole facoltà dove tutti si conoscono – eccelle per la qualità dell’insegnamento, quella australiana investe molto di più nella ricerca e i suoi professori sono bravissimi ricercatori, ma dedicano poco tempo e passione alla didattica. Questa differenza è imputabile a una questione linguistica (nell’Università italiana si parla e pubblica prevalentemente in lingua italiana e questo non attrae studenti dall’estero) e una disparità di priorità e finanziamenti (gli studenti internazionali in Australia sono, invece, tantissimi e pagano cifre esorbitanti per poter accedere ai corsi universitari, rendendo l’istruzione il primo export del Paese con un introito di quasi 20 miliardi di dollari l’anno). Questo causa una grande perdita di talenti, se si pensa a quanti ricercatori italiani come Roberto si trovano in università estere, mettendo al loro servizio conoscenze e competenze acquisite in Italia, dove sarebbe auspicabile che fossero reinvestite. Roberto, infatti, non ha dubbi nell’affermare che in Italia si trovava bene, aveva i suoi amici, il suo lavoro, la sua famiglia ed è convinto che avrebbe continuato a viverci felicemente, se non avesse voluto darsi la possibilità di ‘far carriera’, cosa che molto probabilmente non sarebbe riuscito a fare allo stesso modo.

Alla domanda sulla necessità o meno di un network ‘italo-australiano’ in ambito accademico-professionale, Roberto risponde che ritiene utile la costruzione di un network che funga da ponte tra l’università italiana e quella australiana: mentre lui ha potuto contare su amicizie che gli hanno in un certo senso reso il percorso più lineare, non tutti hanno la stessa fortuna e un’organizzazione che aiuti aspiranti ricercatori italiani a sviluppare il loro progetto in Australia – e, magari, a tornare in Italia successivamente – potrebbe rivelarsi molto utile a creare opportunità e a renderle accessibili. Sarebbe di mutuo vantaggio, infatti, mettere in comunicazione i due sistemi educativi e i due mondi accademici che hanno evidentemente parecchio da imparare l’uno dall’altro.

VALERIA SURIANO

(Eureka, Il Globo, giovedì 21 luglio)