Il bisogno di riscossa

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Ho vissuto male per trent’anni (…) Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. (…) Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafi co inutili (…) stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustifi care la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fi ngere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte (…) la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeff eggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità (…)Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. (…) Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione. (…) Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento. (…) Ho resistito finché ho potuto”.

Questi sono alcuni passaggi di una lunga lettera che un ragazzo di trent’anni di Udine ha lasciato prima di togliersi la vita e che è stata pubblicata per volere dei genitori sul Messaggero Veneto, qualche settimana fa. La lettera ha sollevato un grande dibattito su un dramma che, da umano e personale ha investito l’intera opinione pubblica, trasformandosi nel grido di dolore di un’intera generazione. Una generazione invisibile, investita da una crisi esistenziale senza precedenti, in balia di una società che sta mortificando il proprio futuro come non era mai accaduto prima nella storia.

Molto è stato detto in questi giorni di intensissima discussione su questa lettera, sulla tragedia di una famiglia, sul disagio di un ragazzo che assomiglia a quello di altre migliaia di ragazzi. Su una questione sociale che sta scavando un solco profondo e pericoloso tra le generazioni. Sulla desolante incapacità della politica di trovare risposte ad una profonda crisi del mondo del lavoro, diventato non più il pilastro su cui si basa la Repubblica, ma una tragedia che porta al suicidio ragazzi giovani per lo svuotamento totale della sua stessa dignità. Gli ultimi dati Istat parlano di una disoccupazione giovanile che ha sfondato nuovamente il tetto del 40%. Dei 12,7 milioni di ragazzi tra i 15 e i 35 anni che vivono in Italia, quasi un milione non cerca più lavoro, 1,1 milioni sono totalmente scoraggiati dalla ricerca di un impiego, 1,4 milioni sono disoccupati. Dei 5 milioni che invece un lavoro ce l’hanno, solo 2,8 milioni hanno un contratto stabile che possa permettere la pianificazione di un futuro adeguato alle aspettative. Accanto a questi dati poi, vi sono quelli dell’emigrazione, che sta investendo pesantemente le nuove generazioni, con quasi 150mila italiani che hanno lasciato il Paese nell’ultimo anno. Ma nonostante quella del lavoro sia una piaga che impatta pesantemente sulla lacerazione della nostra generazione, i motivi che portano ad un così forte disagio potrebbero essere più ampi. Dal completo sfilacciamento dei legami sociali al  disfacimento degli organi intermedi di rappresentanza, aspetti di una società consumista che sta parcellizzando la vita, il lavoro e le classi sociali, spingendole a  scomparire.

Mentre in passato c’era la possibilità infatti di riconoscersi in un insieme con simili aspirazioni e simili esigenze, le quali poi venivano rappresentate da organismi specifici organizzati e che spingevano al cambiamento, oggi tutto questo si sta dissolvendo. La vita è sempre più costruita secondo schemi individuali ed individualistici, c’è chi dice persino narcisisti, fomentati dall’utilizzo ossessivo dei social media, i quali però, invece che unire, sembra stiano paradossalmente portando verso l’isolamento provocando senso di inadeguatezza, solitudine, disagio.

Tutto questo, suggerisce Veronica Andrea Sauchelli in una lettera all’Espresso, è però anche responsabilità della nostra stessa generazione, poco interessata alla propria “coscienza sociale”. Veronica, 25enne anch’essa di Udine, esprime forte amarezza per quella che giudica l’apatia dei suoi coetanei e punta il dito proprio sulla sua generazione, assente nel dibattito sociale, attenta a cose superficiali, svogliata, “menefreghista”, vittimista, individualista. “La società non si fa da sola – afferma Veronica – noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto, al posto di un pettine di fili paralleli destinati a non incontrarsi mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda in un assordante silenzio di contenuti. Siamo noi che dobbiamo ricostruire per primi un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili. La cosa pubblica non si fa da sé”. Coscienza di  un’azione unitaria. “Sinergia” conclude Veronica, questa dovrebbe essere la parola d’ordine.

Il coinvolgimento nella società diviene dunque un punto centrale dai molteplici risvolti. Agire per cambiare la realtà in cui si vive deve essere un’azione consapevole che, secondo lo storico Piero Bevilacqua, può condurre alla felicità, ma una felicità diversa da quella proposta dalla società neoliberista “che ha messo al centro l’individuo”. “Oggi appare chiaro che l’edonismo porta all’infelicità e all’anomia della società – continua Bevilacqua -, un individuo che galleggia in questo mare in tempesta è disperato, in perenne gara con l’amico, il collega. Deve dare sempre il meglio di sé, perché questo richiede la cultura dominante: la normalità è proibita”. Questo insieme di sentimenti porta ad una degenerazione della società e di conseguenza dell’individuo, l’unica via di uscita è, secondo lo storico, “la riscoperta della dimensione del conflitto organizzato”. “Solo chi lotta contro le ingiustizie prova speranza, che è un elemento della felicità. Impegno politico e felicità individuale si toccano”, conclude il professore. “Difendere nei territori spazi alternativi di produzione e consumo non dominati dall’ossessione del profitto, costruire aree di gratuità, di cooperazione solidale vuol dire far fiorire nuove logiche sociali all’interno dell’economia di mercato”. Tocca oggi alla nostra generazione oggi percorrere questa logica, prendere per mano assieme la società che ci circonda e portarla ad una dimensione che si apra verso nuovi orizzonti di riscossa.

Luca M. Esposito

(IL GLOBO, giovedì 16 febbraio 2017)