Per comprendere le dinamiche che regolano i fenomeni politici, sostiene Machiavelli, occorre tenere conto dell’immutabilità della natura umana, la relativa costanza dei desideri, delle passioni e dei comportamenti in ogni tempo e latitudine, che consentono di ridurre a unità le mutevoli vicende storiche, di scoprirne le costanti, le ricorrenze. Il mondo, nota Machiavelli, è sempre stato “ad uno medesimo modo”, e gli uomini camminano per lo più lungo le vie già battute da altri.
Pur con il dovuto senso dell’equilibrio, potrebbe essere stimolante fare oggi perno sulle teorie esposte da Machiavelli per riflettere su quelle che sono le espressioni del potere attuali, raffrontandole con una realtà del passato, molto vicina al pensatore fiorentino, che è emblematica della partecipazione allargata alla gestione della res publica.
Il sistema politico comunale, sviluppatosi in Italia grosso modo tra il XII e il XIV secolo, è espressione di una serie di forze che, in un’ambito ristretto, giocano a viso aperto la loro partita nella gestione dell’amministrazione pubblica. Una specie di microcosmo che, data la sua distanza temporale, ci potrebbe permettere di riproporre un’idea di quelli che sono, a detta di Machiavelli, le immutabili dinamiche che regolano i fenomeni politici.
All’interno della città comunale, troviamo infatti da una parte, l’antica nobiltà, distaccata dal resto della popolazione per tradizione e che basa la sua forza economica su una ricchezza imperniata sul possesso fondiario e terriero. Dall’altra, la gestione politica cittadina, da sempre espressione solamente dell’élite aristocratica, subisce un’erosione da nuove forze cosiddette di ‘Popolo’. Queste forze comprendono una nebulosa di categorie sociali che hanno in comune solo il fatto di non fare parte della nobiltà. Al proprio vertice, questo ‘popolo’ presenta una classe variegata, che già nei secoli precedenti ha realizzato enormi profitti, diventando spesso più ricca di molti nobili. Inizialmente questa parte molto ricca del popolo si presenta come leader della parte popolare contro la nobiltà, ma con il tempo, una sua buona fetta comincia ad essere accolta e ad entrare, grazie al potere economico, in quella aristocrazia che dapprima combatteva. Allo stesso modo, molte famiglie nobiliari, pur preservando i propri titoli cominciano ad investire in una serie di attività che le portano a distaccarsi dall’economia fondiaria e ad avvicinarsi invece agli interessi della classe popolare, diventandone spesso, il vertice.
La situazione che si viene dunque a creare nei due macro-insiemi è quella di una promisquità, una compenetrazione in entrambe le direzioni, anche perché, ai vertici, gli interessi di questi due insiemi finiscono per essere molto simili.
Nonostante ciò il ‘popolo’ riuscirà in modo determinante ad avere la meglio, si tenga però ben presente – sottolinea la storica Anna Maria Nada Patrone nel suo lavoro L’ascesa della borghesia nell’italia comunale, 1974 – che il termine popolo non abbraccia l’intera popolazione cittadina e tantomeno gli strati più bassi, i piccoli artigiani, i salariati e la plebe; si tratta invece di quel gruppo sociale, formato per lo più da mercanti, da banchieri, da grandi operatori economici o da certi ristretti ceti artigianali, che riuscì a raggiungere un’influenza politica a tutto danno dell’oligarchia signorile precedente. Di conseguenza è bene avvertire che è assolutamente erroneo parlare di democrazia nel periodo comunale; infatti, pur essendovi ordinamenti che facevano teoricamente posto a larghi e nuovi strati sociali nel governo, la plebe urbana e contadina rimase sempre emarginata da qualsivoglia ingerenza nella conduzione politica del comune. Alle cariche pubbliche erano eleggibili soltanto coloro che possedevano beni immobili o mobili sufficienti per risarcire i possibili danni o le eventuali malversazioni che avessero compiuto a danno della cittadinanza nell’esercizio del loro ufficio, in teoria per assicurare la città contro ogni possibile danno, in realtà per salvaguardare i privilegi di classe di quella ristretta élite urbana, formata dai ricchi borghesi e dai nobili inurbati costituenti ormai quasi un unico gruppo sociale, detto comunemente patriziato cittadino (e nei documenti contemporanei «magnati»). Verso la metà del Duecento si assiste ad una nuova evoluzione del regime comunale: le organizzazioni di lavoro, le corporazioni, già determinanti nella vita economica, riuscirono ad imporsi anche in campo politico. Compare così il capitano del popolo e nei documenti ufficiali del comune è costante la presenza dei priori delle arti e di altri esponenti delle associazioni di mestiere nel consiglio comunale, accanto a quella dei membri delle élite.
Questa evoluzione potrebbe sembrare una vittoria clamorosa della borghesia contro quelle famiglie o quei gruppi signorili che per quasi due secoli erano riusciti a tenere le redini del potere nel comune. Invece, se è pur vero che la «nuova gente» (mercanti, notai, banchieri, imprenditori) prevalse nella direzione del comune, in realtà il rinnovamento operato nella struttura sociale della classe dirigente dei comuni italiani non fu poi così radicale come appare a prima vista. Non solo il movimento del popolo fu spesso guidato da nobili transfughi dal proprio gruppo politico o per convinzione o per calcolo, ma l’elezione quasi sistematica di un nobile a capitano del popolo è una conseguenza innegabile dell’organica insufficienza ed incapacità della borghesia a dirigere il comune in piena autonomia. Quindi, anche questo periodo del comune è contraddistinto dalla persistenza nei posti di comando di molti elementi della nobiltà cittadina. La situazione delle classi più umili della popolazione non migliorò affatto: anche in questo periodo la plebe e l’artigianato minuto continuarono ad essere esclusi dal diritto di organizzarsi in arti autonome e dal diritto di associazione e rimasero soggetti alla giurisdizione disciplinare degli imprenditori non vedendo neppure in minima parte attuarsi una loro partecipazione alla vita cittadina. Possiamo addirittura affermare che videro peggiorare la loro condizione, perché è in questo periodo che si verificò – almeno nei grandi centri – la separazione della forza-lavoro dai mezzi di produzione, cioè prese l’avvio lo sfruttamento capitalistico dei salariati.
Si deve dunque concludere che anche nel periodo del comune popolare non vi fu la minima parvenza di democrazia, bensì il sistema politico adottato fu quello di un’embrionale plutocrazia.
Se non furono realmente parte della guida politica e dei benefici economici, è pur vero che, l’azione delle plebi urbane e delle classi borghesi inferiori, divenne però determinante nello scontro politico e, di volta in volta, il loro numero e la loro pressione fu manovrata dai nobili o dai magnati per il proprio tornaconto, nell’illusione di ottenere una maggiore partecipazione nella gestione e nelle risorse del comune che, di fatto, non avverrà mai.
Anzi, fu proprio facendo leva sull’esigenza di porre fine a questo endemico stato di tensioni e di scontro che, ad un certo punto, le famiglie più potenti, da decenni le vere responsabili di questa conflittualità in seno alla città, imposero una stretta sul gestione della res publica. In nome della stabilità e della pace dunque, di cui proprio esse erano le più acerrime nemiche, queste famiglie miste alto-borghesi e nobiliari ottennero, da una cittadinanza sfinita e impoverita, una emergenziale limitazione dell’accesso al potere. Da questo momento quindi, sempre agendo di facciata all’interno delle sacre istituzioni comunali, che il popolo non avrebbe accettato di veder decadere, questa oligarchia impose ovunque il proprio dominio, erodendo le libertà comunali e trasformandole con il tempo in privilegi della Signoria.
A chiusura di questa lunga, mi perdonerete, riflessione, un ultimo salto nel passato riporta alla mia mente le famose parole contenute nel De Oratore di Cicerone: “La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità”. Nell’osservare il passato dal presente sembra che il ripresentarsi ciclico delle oligarchie risponda proprio al pensiero esposto da Machiavelli di un’unità nella mutevolezza delle vicende storiche. Dopo Brexit e le elezioni americane, episodi della nostra storia da cui le istanze del popolo vengono tenute fuori, ad essere determinante oggi, nel ristretto panorama italiano, diventa l’imminente voto referendario, che stabilirà per sempre una cesura nella composizione del nostro assetto Istituzionale. Opporci a questi disegni significherà rifiutare di essere strumento in mano a questa oligarchia e forse, un giorno, anche la storia ce ne renderà merito.
Luca M. Esposito
nella foto: ‘Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo’ di Ambrogio Lorenzetti (1338 1339), Sala dei nove, Palazzo Pubblico di Siena