“Indie” ma non troppo: MEZZANOTTE – Ghemon

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Ho impiegato qualche settimana, dopo i primi ascolti, per entrare completamente nel mondo musicale e nelle emozioni di ‘Mezzanotte’, l’ultimo disco di Ghemon, e devo dire che la sensazione complessiva che lascia l’ascolto delle quattordici tracce è di trovarsi di fronte a un’autenticità di narrazione e di capacità di approfondimento della forma canzone che colloca il musicista avellinese trapiantato a Milano in una posizione di assoluto livello in quello che mi piace pensare essere il nuovo territorio del cantautorato italiano.

Sono passati più di tre anni da ‘ORCHIdee’, il disco che ha segnato il passaggio dal mondo più strettamente rap, nel quale Ghemon aveva mosso i suoi primi passi artistici, a quello più vicino alle dinamiche soul e della black music, e già in quella occasione, con il prezioso contributo del produttore Tommaso Colliva, nel disco si coglieva la raffi  natezza della scrittura oltre che l’impatto sonoro di una band che scardinava, a mio parere sensibilmente, certi cliché del mondo rap. Contributi quali quelli di Ramiro Levy dei Selton, di Fabio Rondanini ed Enrico Gabrielli dei Calibro 35 e di Patrick Benifei dei Casino Royale hanno garantito, in quel disco, un groove che ha sostenuto con grande forza la scrittura di Ghemon. In ‘Mezzanotte’ c’è tutto questo e molto di più, così come c’è ancora la mano di Tommaso Colliva e il suono della band ‘Le forze del bene’ che accompagna Ghemon anche in tour (ripartito in tutta Italia proprio in questi giorni dopo la fortunata parentesi della partecipazione del cantante come guest a Sanremo 2018 sul palco con Roy Paci e Diodato).

È sempre delicato parlare di ‘maturità’ nel descrivere il lavoro di un artista, soprattutto in casi come Ghemon, dove l’asticella della ricerca artistica tende a essere spostata sempre più in alto. Il passaggio da ‘ORCHIdee’ a ‘Mezzanotte’ – l’ha raccontato lui stesso – è stato un percorso fatto di desiderio, di istinto forse, di mettere a nudo certi sentimenti, debolezze, diffi  coltà, che la persona, prima che l’artista, stava vivendo.

E allora non posso non ribadire il mio apprezzamento per l’autenticità, l’onestà che si coglie nella scrittura e anche, perché no, per il coraggio di mettersi in gioco con idee musicali più strutturate che raccolgono il testimone della grande musica italiana e la impreziosiscono con richiami del soul, del jazz e della black music. I riferimenti sono molto chiari, da D’Angelo fi no al mainstream di qualità di Frank Ocean e Kanye West, passando per le ‘follie’ musicali di Childish Gambino, ma è  la voce di Ghemon in questo disco che sembra essere lo strumento su cui c’è stato un grande, apprezzabile, lavoro. I due brani di partenza del disco, ‘Impossibile’ e “Un Temporale’, hanno ritmica secca, un beat strutturato, e sono, a mio parere, entrambi pezzi che, se non fosse per la lingua italiana (non semplice da utilizzare, peraltro, per un certo tipo di ritmica soul/black), potrebbero senza dubbio trovare spazio in dimensioni di mercato più internazionali. Ma è nelle divagazioni funk e R&B di ‘A Casa mia’ e ‘Cose che non ho saputo dire’  (grandi arrangiamenti con chitarre distorte e fiati) che Ghemon dimostra di avere le carte in regole per spingersi oltre, collocandosi su un livello nettamente superiore rispetto al panorama della musica italiana di questi ultimi anni, in particolar modo di quella di provenienza hip-hop, troppo impegnata a scimmiottare modelli che poco si addicono alla storia della nostra musica.

Il disco è prodotto da Macro Beats Records, etichetta indipendente con un roster di tutto rispetto (fino a fi ne 2017 produttori anche di Mecna, altro artista dalla scrittura di grande qualità che, tra l’altro, ha curato l’artwork della copertina di ‘Mezzanotte’).

Marco Patavino

(IL GLOBO, Eureka, giovedì 1 marzo 2018)