Una rubrica di recensioni musicali che non vuole avere altro obiettivo se non quello di condividere la musica italiana ‘vista’ da lontano, una sorta di aggiornamento continuo della playlist di emozioni che ognuno di noi ha portato nel proprio viaggio.
Mi piace iniziare questo percorso musicale con un disco che è conferma e, allo stesso tempo, continuo rinnovamento di uno stile così eterogeneo che non ha bisogno né di definizioni né di essere collocato in polverosi scaffali che rischierebbero di appiattire l’impatto emozionale che soltanto l’arte ci sa regalare.
Prisoner 709 è il disco che rappresenta il ritorno in scena di Caparezza, con il suo settimo album (la numerologia è una componente importante di questo lavoro), forse il suo lavoro più complesso, dove i continui contrasti, sia nella scrittura del testo che della musica evidenziano anche tratti di cupezza che, a volte, diventano claustrofobici (quale metafora migliore, se non quella della prigione?). Lavoro non certamente immediato, che, in una sorta di percorso di autoanalisi in sedici tracce, come l’ha definito lo stesso Caparezza, vede il personaggio (ruolo sempre poco apprezzato da uno degli autori italiani più allergico alle dinamiche dello showbiz) lasciare spazio alla persona e al suo racconto, alle prese con un continuo gioco di opposizioni. Tracce piene di easter eggs, dove i più espliciti sono proprio quelli legati ai due numeri scelti da Caparezza come elemento ricorrente nella scrittura di questo album, il 7 e il 9, ovvero parole di sette e di nove lettere, indicate come sottotraccia per ogni brano, che hanno signifi cato contrapposto, un gioco non puramente stilistico ma piuttosto sostanziale, direi, per cogliere il senso della narrazione, come fosse un vero e proprio libro in musica.
Il disco nasce da una vicenda personale che il cantautore pugliese, in fase di presentazione del disco, ha raccontato spesso: all’inizio del suo precedente tour, Caparezza è stato colpito da un grave problema uditivo noto come acufene, una sorta di prolungato fi schio che solitamente sparisce dopo breve tempo ma che, purtroppo, nel suo caso, sembra non abbia avuto, almeno fi nora, una soluzione. E se un problema del genere può risultare oltremodo fastidioso per chiunque, proviamo a immaginare cosa possa comportare per un musicista, che, comunque, in questo caso l’ha fatto diventare uno stimolo artistico per una nuova partenza, rimettendosi per l’ennesima volta in discussione.
Il risultato sono sedici tracce che superano la mera denuncia sociale e politica molto presente nei precedenti lavori ed entrano più in profondità, in un continuo riferimento al mondo della psicanalisi da Prosopagnosia (con il feat. di John De Leo, uno degli artisti forse più sottovalutati della scena musicale italiana), passando per Forever Jung, vero e proprio fl usso di coscienza che riporta alle origini e che vede la partecipazione di DMC, ovvero Darryl McDaniels dei Run Dmc, a pieno titolo tra i più grandi nella storia del rap), in un’alternanza di rock, hip-hop, electro-funk e rap. Ma un disco così bello e complesso credo non necessiti di troppe parole che introducano i singoli brani; occorre, a mio parere, soltanto lasciarsi trasportare dalla musica, in una narrazione che parte dall’idea di reato e arriva all’evasione e alla latitanza, tra libertà e prigionia.
“Solo accettando la finzione noi ritroveremo l’umanità” è la frase che apre L’infinto, finzione come strumento per tornare all’essenza della persona, fuori da ogni ruolo che rischia di diventare prigione.
MARCO PATAVINO
(IL GLOBO, Eureka, giovedì 1 febbraio 2018)