Noi che viviamo in Australia siamo abituati a sentir parlare di multiculturalismo. Solitamente, a parte qualche inevitabile voce fuori dal coro, in termini positivi. A Malcolm Turnbull piace dire che “l’Australia è la nazione multiculturale più di successo al mondo”. Sottolineare la bellezza di vivere in una società composta di persone con tante origini diverse, con facce diverse, che parlano diverse lingue e mangiano cose diverse sembra quasi un assioma Down Under.
In Italia, invece, parlare di multiculturalismo non va altrettanto di moda e, anzi, il clima che si respira al momento (stando a quanto ci dicono amici e parenti rimasti nel Belpaese e quanto si legge sui giornali) sembra essere piuttosto quello di una diffi cile convivenza tra ‘italiani’ e ‘stranieri’. Solo negli ultimi giorni, ho letto di un ragazzo del Gabon picchiato a Torino, di manifesti che dicevano agli immigrati ti tornarsene ‘a casa loro’ sempre a Torino, di razzismo tra bambini delle elementari in un centro estivo di Riccione, di scritte razziste sui muri di Viareggio… Il discorso politico è interamente concentrato sugli sbarchi, sulle difficoltà legate all’integrazione dei migranti. L’immigrazione è presentata costantemente come problema e gli effetti si fanno sentire indiscriminatamente su chiunque appaia diverso (per nome, colore della pelle, religione o altro), che viene di fatto escluso anche se in Italia ci è nato o ci vive da decenni.
L’Italia fa fatica ad aprirsi a nuove idee di ‘italianità’ eppure l’Italia multiculturale esiste eccome. Lo si capisce dallo sport, ad esempio dalle Azzurre che la scorsa settimana hanno vinto la medaglia d’oro alla staff etta 4×400 ai Giochi del Mediterraneo: Libania Grenot, Maria Benedicta Chigbolu, Ayomide Folorunso e Raphaele Lukudo.
Lo si capisce anche accendendo la radio. C’è una canzone che da 22 settimane è nella classifica dei singoli più ascoltati in Italia, il suo video ha 87 milioni di visualizzazioni su YouTube, una grande multinazionale come la Vodafone l’ha utilizzata per il suo spot pubblicitario. Si intitola “Cara Italia” e il ritornello fa così: “Quando mi dicon ‘vai a casa’, rispondo ‘sono già qua’ / Io t.v.b. cara Italia, sei la mia dolce metà”. Il cantante è Ghali, un ragazzo di 25 anni nato e cresciuto a Milano da genitori tunisini. Il magazine di musica Rolling Stone ha dedicato a lui la copertina di giugno, intitolando “Ghali è la nuova Italia”. A intervistarlo è stato un altro ragazzo di seconda generazione, lo scrittore Antonio Dikele Distefano, di origine angolana ma nato a Busto Arsizio. Forse è solo una questione di tempo.
Al contrario dell’Australia, l’Italia è stata storicamente un Paese d’emigrazione. Certo, andando ancora più indietro nella storia, centinaia di
popoli diversi hanno percorso la Penisola nel corso dei secoli rendendo gli ‘italiani’ un popolo di meticci. Ma questo gli italiani di oggi tendono spesso a dimenticarselo. Solo dal censimento del 1981 (il primo a registrare gli stranieri regolarmente residenti nel Paese) l’Italia si scopre un Paese di immigrazione. E da allora i numeri non hanno fatto che aumentare: se 37 anni fa si contavano 98.985 stranieri, oggi questo numero è arrivato a 3.714.137 (dati Istat, gennaio 2017). Tra questi ci sono anche circa 800mila ragazzi cresciuti in Italia che, con la cosiddetta riforma dello Ius Soli da anni bloccata in parlamento e completamente scomparsa dal dibattito politico alle ultime elezioni, rimangono a tutti gli effetti ‘cittadini senza cittadinanza’.
Il “ti voglio bene” all’Italia di Ghali non deve essere dato per scontato. È un messaggio forte in questo clima sociale che va ascoltato e preso sul serio. Ci sono altri ragazzi di seconda generazione come lui che, come reazione alla discriminazione (inclusa la mancanza di diritti politici) decidono infine di autoescludersi, di identificarsi appositamente come il ‘diverso’. E questa è una frattura sociale che potrebbe essere molto pericolosa per il futuro dell’Italia.
Margherita Angelucci
(IL GLOBO – Eureka, 5 luglio 2018)