Al di là di come verranno ridisegnate le ripartizioni della circoscrizione estero, il vero tema preliminare da affrontare, che è sempre stato una delle armi più efficaci nelle mani dei critici del voto italiano all’estero, è quello dell’affluenza al voto. O meglio, di come viene calcolata l’affluenza al voto nelle ripartizioni estere, un problema che si lega strettamente a quello della cittadinanza, del suo significato e del suo valore per chi la acquisisce. Ma questa è un’altra storia.
Dal momento in cui il diritto di voto dall’estero fu istituito e inserito in Costituzione nel 2001, i cittadini italiani fuori confine sono stati chiamati ad esprimersi su 7 Referendum e 4 elezioni politiche. Al primo referendum del 2003 l’affluenza si attestò sul 23% circa, la stessa identica dell’ultimo del 2020. Alla prima tornata elettorale politica, invece, l’adesione fu del 39%, calata al 29% nel 2018. In numeri assoluti, l’ultima elezione politica ha visto partecipare dall’estero oltre 1 milione e 200mila elettori, su un totale di più di 4 milioni e duecentomila aventi diritto. In pratica lo stesso numero di elettori attivi in una media regione italiana. E’ pur vero che nel 2006 gli aventi diritto all’estero erano praticamente la metà, 2 milioni e 700mila e coloro che hanno effettivamente espresso il loro voto sono stati oltre 1 milione. In quindici anni, pertanto, con il numero di italiani residenti all’estero raddoppiato, il numero di coloro che partecipano al voto è invece aumentato solo del 20%.
La prima cosa interessante è che il calo percentuale del 10% di votanti tra il 2006 e il 2018 dei partecipanti alle elezioni politiche tra i cittadini all’estero rispecchia esattamente il medesimo calo avvenuto in Italia, dove l’affluenza è passata dall’83% del 2006 al 72% del 2018. Poco più di dieci punti percentuali esatti. Mentre però appunto in Italia si partiva da sopra l’80% di affluenza, all’estero si partiva dalla metà, 40% circa. Ora, questo dato del 30% al quale è caduta l’affluenza all’estero, visto dalla madre patria può sembrare poco, ma in realtà non lo è affatto se si considera la composizione dell’elettorato italiano più da vicino.
Grosso modo, le comunità italiane all’estero sono infatti divise in tre macro insiemi con delle caratteristiche su per giù simili al proprio interno.
La prima è composta dall’emigrazione tradizionale partita dall’Italia tra gli anni 50 e 70 che ha sofferto molto l’allontanamento dall’Italia e che con molta fatica è riuscita ad integrarsi nei Paesi di origine. E’ questa la parte della comunità che ha un forte attaccamento per la cittadinanza italiana, esprime forti connotazioni politiche, figlie delle grandi stagioni politiche del novecento e ha visto in gran parte con favore l’introduzione del voto all’estero, partecipando attivamente durante le prime tornate elettorali. E’ però anche vero che questa parte della comunità sta invecchiando sempre di più, quindi fatica a seguire le vicende italiane e trova sempre maggiori difficoltà in un sistema di voto intricato. Inoltre è in costante diminuzione per cause naturali.
La seconda parte è composta invece di italo-discendenti, la maggior parte dei quali ha acquisito la propria cittadinanza italiana o alla nascita, per volere dei genitori, o più avanti, spesso per fare ritorno in Italia ad esplorare le proprie radici. Comunque per motivazioni prettamente turistiche, specialmente dopo che, con l’istituzione dell’area Schengen, la libertà di movimento garantita dalla cittadinanza italiana si è estesa a tutta Europa. Questa parte della comunità fatica molto anche solo a parlare italiano, è quindi difficile per essa seguire le vicende della politica italiana, alla quale è generalmente poco interessata. Da questa parte della comunità, in aumento crescente e completamente integrata nei Paesi di nascita, arrivano le critiche maggiori sul voto all’estero, al quale partecipano in misura ridottissima. La critica più comune di questi italiani residenti all’estero nei confronti del voto è che non sarebbe giusto eleggere rappresentanti in un Paese dove non si pagano le tasse e di cui quindi non si subiscono le scelte politiche. A parte l’equivoco insito in questa critica, che confonde il cittadino e il contribuente, l’idea è che non sarebbe giusto fare delle scelte che poi pesano solo sulla popolazione italiana e non su loro stessi.
L’ultimo segmento è poi quello dei milioni di giovani italiani che hanno deciso di emigrare in questi ultimi 15/20 anni. Per questo insieme affrontare il tema dell’adesione o meno al voto all’estero è più complesso. Intanto perché la maggior parte di essi non è iscitto all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, che dà diritto ad esprimere il proprio voto da fuori confine. Secondo i calcoli più attendibili solo 1 su 3 è iscritto all’Aire e quindi solo uno su tre può esprimere, se lo desidera, il proprio voto. C’è poi da considerare il fatto che per questo segmento l’emigrazione è una scelta che spesso si accompagna alla disillusione nei confronti della politica italiana e in generale del Sistema Paese Italia e ciò porta ad un distacco netto dalle vicende interne della nazione che hanno lasciato. La loro partecipazione al voto, dunque, sebbene in crescita, è molto marginale. Il problema in tutto questo è che, per tale segmento, l’esperienza migratoria è meno stabile rispetto alle generazioni passate, quindi è più probabile che molti di loro prima o poi facciano ritorno in Italia. Pertanto dovrebbero più degli altri essere interessati a ciò che avviene in Patria. Ma soprattutto, in particolare fuori dall’Unione Europea, questo insieme di cittadini italiani impiega anni ad ottenere i diritti politici nei Paesi di adozione, che invece i due precedenti segmenti possiedono, e quindi viene totalmente estromesso dalla comunità politica. L’unico spazio per esprimere le proprie idee e il proprio essere come cittadino resta dunque il voto italiano all’estero, che quindi acquisisce una importanza fondamentale come mezzo per esercitare il proprio pensiero politico e il proprio diritto ad essere rappresentati.
Fatte queste premesse, è chiaro come l’importanza del voto all’estero sia essenziale dal punto di vista dei diritti soprattutto per questo ultimo segmento della nostra comunità e che sulla sua partecipazione si giocherà il futuro stesso di questa istituzione. Ma è allo stesso modo chiaro anche come il voto all’estero resti un mezzo importante per il legame tra gli altri segmenti delle comunità estere e l’Italia, nel rispetto della natura stessa della cittadinanza. Il voto all’estero, tuttavia, così come è organizzato e basato sull’iscrizione all’Aire rischia di non essere più rappresentativo e di diventare presto una istituzione che per la poca affluenza verrà ritenuta supeflua. Come abbiamo dimostrato invece resta essenziale proprio in prospettiva futura e per le generazioni mobili del nostro tempo, ma dovrebbe rispecchiare meglio un elettorato che vive la propria cittadinanza nel pieno del suo significato. Per permettere ciò, l’ipotesi più corrispondente, potrebbe dunque essere quella di istituire una registro elettorale al quale tutti coloro che risiedono all’estero e sono in possesso della cittadinanza italiana possono iscriversi, in qualsiasi momento e basare su di esso il calcolo dell’affluenza al voto. Fatto 100 il numero totale degli iscritti al registro elettorale. In questo modo coloro che vogliono fare parte della comuntà politica e comprendono il senso profondo del proprio essere cittadini possono iscriversi alle liste elettorali e ricevere il plico in caso di elezione o referendum. Per tutti gli altri l’opzione sarebbe sempre possibile, in ogni momento, ma il loro disinteresse non offrirebbe un facile appiglio per chi vuole sminuire il voto di oltre 1,2 milioni di cittadini italiani.