La questione della nuova ‘ondata’ di migranti italiani in Australia, ormai, non è più così nuova. Il picco dei Working Holiday Visa, il più delle volte la prima porta d’accesso all’Australia e al mondo del lavoro australiano, si è raggiunto nel 2013-14, con 16.045 visti accordati, l’anno dopo si è assistito ad un aumento dei visti studenti, e si era già capito che si trattava dei Working Holiday Makers che cercavano, in un modo o nell’altro, di rimanere Down Under.
Noi di Eureka ne parliamo da inizio 2014 e già da allora era attivo lo sportello Welcome di Nomit presso il Consolato che informava e raccoglieva dati sui tanti giovani che approdavano in Australia. Ma, salvo qualche caso, l’attenzione delle istituzioni, del mondo accademico e dei media (al di là degli articoli sull’‘Eldorado Australia’) si è accesa solo più di recente. Per troppo tempo la questione è stata sottovalutata, fi no a che sono venuti alla luce casi di sfruttamento sistematico dei lavoratori temporanei, soprattutto nei settori dell’agricoltura, dell’hospitality e delle costruzioni, oggetto anche di un’inchiesta da parte del Senato, nonché diffi coltà diffuse nell’ottenimento dei visti per riuscire a rimanere in Australia e nell’inserimento nel mercato del lavoro locale.
Chi se ne deve occupare? È questa la domanda che ora emerge con urgenza. L’orientamento e i problemi di questi migranti sono un problema del governo australiano, del governo italiano, della comunità italiana in Australia o ognuno deve cavarsela da solo?
Gli autori dell’ultima ricerca sul tema “A new Italian ‘exodus’ to Australia?”, prof. Bruno Mascitelli e dott. Riccardo Armillei fanno alcune raccomandazioni in merito, rivolgendosi in particolare al governo federale australiano. L’approccio di Canberra, però, sembra andare in direzione opposta. Si vogliono migranti a pagamento. Migranti che pagano per i visti sempre più cari (ad esempio, il Partner visa è salito dai $2.960 del 2012 ai $6.865 attuali) e per le rette universitarie che fanno sopravvivere gli atenei e gli istituti di TAFE del Paese, investitori dall’Asia che comprano immobili e aziende.
Questa nuova ondata migratoria non è nemmeno comparabile a quella degli anni del Secondo Dopoguerra, oggi l’Australia non ha bisogno di manodopera per mandare avanti le proprie industrie ed espandere le proprie città e per farsi le spalle grosse contro la “minaccia giapponese”. Quello di stabilirsi sul proprio territorio è diventato un privilegio che l’Australia concede solo a chi può permetterselo: niente rifugiati, migranti temporanei a patto che restino tali, incoraggiandoli nel frattempo a svolgere quei lavori (raccogliere frutta nei campi o a impacchettare polli nelle fabbriche) che gli australiani non vogliono fare e a rimettere in circolo quanto guadagnano.
Il problema è tutt’altro che solo italiano e ha bisogno di una risposta concertata. La comunità italo-australiana può farsi capofila delle richieste da avanzare al governo federale, grazie al suo profi lo influente, ma c’è bisogno di collaborazione e di mettersi insieme alle comunità più numericamente consistenti, come quella cinese e indiana.
E, più urgentemente, c’è bisogno di un sostegno da parte delle istituzioni italiane come Coasit e Comites. Non bastano le ricerche per individuare i problemi, servono azioni concrete, come l’organizzazione di corsi di inglese gratuiti, attività di ‘career coaching’, sostegno psicologico, informazioni su Medicare e altri aspetti della vita in Australia.
Tutte attività che i volontari di Nomit svolgono da anni, spesso senza vedere riconosciuto il proprio lavoro e obbligati a mendicare i fondi per continuare. Questo deve fi nire. Questi servizi devono essere svolti con la certezza di poter andare avanti, così come i giovani migranti devono poter avere la certezza di non essere lasciati soli.
Margherita Angelucci
(Eureka – Il Globo 15 settembre 2016)