Il mese scorso, durante il convegno Diaspore Italiane a Genova, è stato proiettato il docufilm di Barbara Pavarotti Addio Italia, non tornerò, che avevamo già presentato sulle pagine di Eureka. Avevo aspettative molto alte per questo documentario, realizzato dalla Fondazione Paolo Cresci per l’emigrazione italiana, a cui hanno partecipato anche alcuni ragazzi italiani di Melbourne, ma purtroppo mi ha deluso.
Su una cosa in particolare mi ha fatto riflettere: abbiamo un grande problema con le storie di emigrazione che raccontiamo.
La maggior parte delle storie contenute nel documentario (a parte rare eccezioni come quella di una ragazza che fa la babysitter a Los Angeles) sono quelle di giovani con situazioni privilegiate: ricercatori, docenti universitari, astrofisici, registi. I classici cervelli in fuga di cui si parla da vent’anni. Le loro esperienze di emigrazione sono sempre descritte come positive e, tutto sommato, lineari. Sono le stesse che ritroviamo, ogni settimana, nei titoli della rubrica del Fatto Quotidiano, intitolato proprio “Cervelli in Fuga”: “Enologo in Australia. ‘Qui hanno creduto in me anche se non ero nessuno. In Italia senza conoscenze non lavori’” (22 giugno 2019); “Ricercatore a San Diego. ‘Sono qui perché ho risposto a un annuncio su Nature. Qui le cose sono molto più semplici e dirette’” (16 giugno 2019).
Sono storie belle, a lieto fine, che fanno sembrare il trasferimento all’estero una scelta decisamente vantaggiosa. Invogliano i giovani a partire e a provarci. Il problema non è raccontare queste storie. Il problema è raccontarle solo con un certo taglio e, soprattutto, raccontare solo queste. Così facendo, si dà vita a un circolo vizioso. Spingendo una narrazione univoca dell’emigrazione, si fa sì che i tanti giovani italiani che partono e hanno un’esperienza diversa dall’unica che trova spazio nei giornali e in tv non vogliano poi raccontare la loro storia, pensando erroneamente di essere un’eccezione, gli unici ‘sfigati’ che all’estero non sono riusciti a trovare il lavoro della loro vita in due giorni o hanno vissuto situazioni di ansia per la lontananza dalla famiglia o le difficoltà di integrazione con il tessuto sociale locale. Per non parlare di coloro che si trovano a vivere esperienze negative di sfruttamento, abusi, lavoro in nero, furto di salari. Casi che, come hanno rivelato recenti studi come “Wage Theft in Australia” a cura di Bassina Farbenblum e Laurie Berg, sono tutt’altro che isolati.
Raccontare queste storie, dando un quadro completo dell’esperienza migratoria, è doveroso per assicurarci che i ragazzi italiani che decidono di andare all’estero lo facciano in maniera consapevole e informata. È importante che ciascuno possa sentirsi legittimato a raccontare la propria storia, che sia di successo, di fallimento o semplicemente di esperienza temporanea.
Coloro che tornano, o stanno pensando di tornare, sia per motivi di visto, lavoro o nostalgia, non devono farlo con la coda tra le gambe, credendo di aver fallito o di dover tener nascosti i lati duri di questa esperienza ad amici e familiari. Stare lontani da casa – ricostruirsi una nuova casa – è tutt’altro che una passeggiata: la loro storia non è l’eccezione, è la regola.
Infine, un’ultima considerazione. “Addio Italia, non tornerò” non solo è un titolo che non corrisponde alla realtà, ma è anche il contrario di ciò che dovremmo auspicare per il nostro Paese, che continua a perdere un numero sempre più alto di giovani che ha formato. La laurea è spesso un vero e proprio “foglio di via”, come ha detto il rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi, che ha aggiunto preoccupato: “Perdiamo il vero capitale del Paese, un suicidio perfetto”.
Dopo due mesi in Italia, posso però constatare amareggiata che questo “suicidio perfetto” (come spesso avviene per i suicidi) sta avvenendo in silenzio. Tutte le persone che ho incontrato hanno almeno un familiare o un amico all’estero, ma nei media questo fenomeno appare sporadicamente, decisamente con meno preponderanza rispetto a quello dell’immigrazione, con narrazioni stereotipate che non rendono giustizia a chi è emigrato e senza proporre soluzioni per chi, magari, se ne è andato pronunciando un “Addio Italia” che sperava non dovesse essere definitivo.
(IL GLOBO – Eureka, giovedì 19 luglio 2019)