Sono molte le storie di ragazzi italiani che sono costretti, magari dopo anni di sacrifici, a lasciare l’Australia. La maggior parte di loro perché non è riuscita, neppure dopo lungo tempo, a trovare un modo per ottenere un visto permanente e, nonostante gli sforzi, non gli resta altro da fare che risalire sull’aereo e riprendere la via di casa.
Soprattutto negli ultimi anni casi del genere si stanno moltiplicando, segno di una chiusura sui visti sempre più rigida da parte delle istituzioni e della politica australiana. Per i tanti che si trovano in questa situazione, oltre al grande dispendio economico e di energie, c’è l’amarezza per essere costretti ad abbandonare la loro nuova vita, fatta di affetti, amicizie, relazioni professionali, costruite con fatica dall’altra parte del mondo, oltre alla sensazione di sentirsi rifiutati da una società nella quale ci si stava integrando e alla quale si stava cercando di dare genuinamente il proprio contributo.
Colpisce che il problema non sembra essere affatto percepito neppure dalla comunità italo-australiana, dove il concetto predominante è teso verso la retorica del sacrificio: i giovani italiani che arrivano oggi, è il discorso che va per la maggiore, devono guadagnarsi la nuova vita lavorando sodo e facendo sacrifici, come hanno fatto le generazioni precedenti. Così facendo, si dice, riusciranno sicuramente a trovare una strada nella società australiana, che offre molte possibilità ed è oggi aperta, inclusiva e meritocratica. Discorso comprensibile e persino sensato, che però non tiene conto di quanto diversamente dal passato, al giorno d’oggi, lavorare sodo e rispettare le regole, pagare le tasse e contribuire alla comunità, possa non bastare affatto, perché un bel giorno il visto al quale avevi sperato di poter accedere subisce delle restrizioni, oppure ti viene respinto senza possibilità di appello, e dopo anni di impegno e sacrificio, hai appena 28 giorni per lasciare il Paese.
Ascoltando la frustrazione e il senso di ingiustizia espresso dai tanti ai quali capita di trovarsi in una situazione del genere, viene da pensare che forse, quest’Australia, non è forse poi così fair come ci è stato raccontato.
La cosa non impensierisce ovviamente le autorità australiane, e neppure quelle italiane o europee, che per difendere i migranti in Gran Bretagna dalla Brexit hanno fatto le barricate, ma sembrano non accorgersi della sorte che tocca ai molti giovani europei sparsi per il mondo.
Proprio uno di questi ragazzi – costretto a lasciare Melbourne dopo 5 anni di doppi lavori, visti studente e migliaia di dollari spesi inutilmente in migration agent – ha partecipato alla realizzazione del documentario “Italia addio, non tornerò”, presentato la scorsa settimana alla Camera dei Deputati e realizzato dalla Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell’Emigrazione italiana (da un’idea di Marinella Mazzanti e a cura della reporter Barbara Pavarotti). Videomaker di alto livello, è stato coinvolto nel progetto e ha realizzato le interviste, poi finite del documentario, di altri ragazzi che come lui sono finiti a Melbourne. E’ per questo che tra le tante esperienze di giovani italiani sparsi per il mondo coinvolti nel progetto, un buon numero proviene proprio da qui. La maggior parte sono storie di chi ce l’ha fatta, di chi può affermare con certezza che “non tornerà”, con quel pizzico di nostalgia e quel retrogusto di amarezza che fa capolino, chissà perché, anche in coloro che si dicono pienamente realizzati.
L’intento del docufilm è quello di accendere un riflettore sulla migrazione italiana, che, dice il direttore della fondazione Cresci Pietro Luigi Biagioni, “è tornata ai livelli del dopoguerra”. Tuttavia, continua il direttore nella presentazione del documentario, nei primi decenni del novecento gli italiani “partivano con nel cuore lo strazio per il distacco e il dolore per la terra perduta. Ora invece nell’epoca della globalizzazione e degli spostamenti facili, questi ragazzi partono consapevoli di loro stessi e delle proprie capacità che in Italia non hanno potuto applicare”. Si parte dunque, sembra di capire dal documentario, per un forte senso di frustrazione e perché all’estero si cercano quelle possibilità che l’Italia proprio non offre. Il lavoro come motivazione determinante, la ricerca di una propria affermazione o la realizzazione di sogni che in Italia sembrano impossibili. Quindi, è il messaggio degli autori, quasi nessuno è intenzionato a tornare.
Ascoltando però la maggior parte delle interviste non sembra proprio che questa interpretazione e quindi il titolo scelto dagli autori per il docu-film siano completamente centrate. La retorica della fuga infatti non traspare in modo rilevante dalle interviste, e soprattutto non si esclude quasi mai la possibilità di rientrare in Italia. Certo, il presente è nei Paesi di adozione, anche perché i sacrifici fatti per ricostruirsi una vita pesano sul futuro in modo determinante e perché ricominciare nel Paese che si è lasciato suscita giustamente forti timori. Ma più aumentano gli anni, più aumentano le distanze, più l’idea di tornare è invece considerata con apertura. I giovani italiani che affrontano l’avventura dell’estero appaiono piuttosto molto curiosi, pronti a muoversi ancora, ad esplorare, ad affrontare esperienze e modi di vivere diversi. Hanno imparato ad affrontare alcuni tipi di paure e insicurezze in modo differente, e per questo, anche sull’ipotesi di tornare in Italia ci si confronta con questa attitudine.
E’ comprensibile poi che chi si sia trasferito a Londra o Barcellona, e abbia la possibilità di tornare a casa anche solo per un fine settimana senta meno la distanza, o la nostalgia. Ma anche in molti di coloro che non sono finiti all’altro capo del mondo, l’idea che un giorno si rientrerà non è mai esclusa categoricamente come invece il titolo vorrebbe far intendere. L’importante è che sia una scelta libera, non forzata da politiche di visti che ti costringono a farlo, né perché sopraffatti dalla nostalgia. Quello che i giovani italiani continuano a volere, e dimostrano di essere pronti a conquistare, è la libertà di scegliere.
Luca M. Esposito