Ripensare l’approccio all’immigrazione per rimettere l’uomo al centro

monash

La scorsa settimana hanno avuto luogo in tutta l’Australia una serie di eventi e incontri per celebrare la Social Science Week, una iniziativa promossa da cinque atenei australiani – l’Università di Melbourne, la Monash, le università del Western Australia e di Sydney e la Charles Sturt University – e presieduta dal professore di Sociologia dell’Università di Melbourne, Dan Woodman.
L’intento della settimana è stato quello di sensibilizzare l’attenzione di un pubblico più vasto sull’importanza delle scienze sociali nella nostra vita di tutti i giorni, nell’architettura stessa delle nostre società, nella tenuta del nostro sistema democratico.
Mentre infatti teniamo lo sguardo fisso sui nostri telefonini, o sugli schermi che ci indicano l’andamento dei titoli in Borsa, c’è un mondo là fuori che ha bisogno di essere governato comprendendo in profondità i suoi processi, gli stessi processi che, senza che quasi ce ne rendiamo conto, impattano a volte con violenza nella nostra vita. Anche perché, in un panorama dove la robotizzazione sta prendendo il sopravvento in modo lento ma inesorabile sull’attività umana, quello di cui si avrà sempre più bisogno è di menti che riflettano e possano darci dei punti cardinali di riferimento sui quali impostare  la rotta della nostra società.
Ecco che, dunque, gli strumenti forniti dalle scienze umane e da quelle sociali diventano essenziali e tornano ad essere centrali per lo sviluppo di una umanità capace di porsi le giuste domande e darsi le risposte corrette. Le scienze sociali danno forma alla Nazione, hanno ribadito infatti gli organizzatori di questa iniziativa, che tra i molti incontri ne ha ospitato uno concentrato in particolare nella discussione di uno dei fenomeni rilevanti che sta ormai investendo tutto il mondo, quello della migrazione.
E proprio partendo dalla domanda sulla validità dell’approccio alla migrazione che i governi stanno adottando, il dibattito si è concentrato per capire se la risposta dei Paesi cosiddetti occidentali di serrare le proprie frontiere, sia o meno la scelta più intelligente davanti ad un movimento che appare sempre più vasto in termini numerici. Chiudersi come in un castello fortificato non sembra infatti una soluzione sostenibile a lungo termine e dunque sarà inevitabile trovare gli strumenti adatti per gestire, piuttosto che respingere, questo fenomeno.
E mentre anche in Italia l’approccio australiano al problema è indicato da qualcuno come un punto di riferimento, l’opinione degli esperti di scienze sociali sembra andare in un’altra direzione.
Al centro del problema c’è infatti il concetto stesso su cui sono incardinate le politiche migratorie, che guardano alla migrazione come un pericolo, o al massimo pretendono, come in Australia, di operare una selezione dei migranti a seconda delle loro “skills”, valutando se siano più o meno utili al Paese in un dato momento. Ma tale impostazione nasconde una concezione dell’essere umano molto pericolosa, perché considera l’uomo non un fine delle politiche stesse della società, ma solo come un mezzo al servizio del sistema produttivo.
Un concetto che, come in un cortocircuito, è in realtà contrario ai principi su cui entrambi i maggiori partiti australiani fondano la propria struttura ideologica. Lo Stato liberale infatti, nato dopo la rivoluzione francese, pone proprio le libertà dell’essere umano al centro della propria ragione d’essere e la costruzione di muri per limitarne il movimento è in sostanza un tradimento del principio stesso di libertà.
Per quanto riguarda il movimento dei lavoratori, che ha nel suo stesso cromosoma anch’esso una vocazione internazionale, e quindi senza confini, avallare il concetto che l’immigrato sia visto puramente come un mezzo significa indirettamente avallare l’idea di una parte della classe dominante che il lavoratore stesso non sia più fine, una parte essenziale della struttura sociale, ma anche lui solo un mezzo.
Di conseguenza, nell’era della tecnologia in cui viviamo, ci sarà sempre meno differenza tra una macchina, un semplice mezzo, e il lavoratore stesso. In pratica dunque, respingere il concetto che sta alla base delle politiche migratorie odierne in Australia significa per i lavoratori non solo tenere fede alla propria impostazione ideologica, ma preservare allo stesso modo il proprio futuro.

 

Photo: L’incontro intitolato “Reimagining migration” mediato dal giornalista e ricercatore Peter Mares e tenutosi al Wheeler Centre di Melbourne per la Social Science Week

(IL GLOBO – Eureka, 19 settembre 2019)

Articolo scritto da

Luca M. Esposito

Luca M. Esposito

Che ci fa uno storico medievale, con un impiego nelle produzioni cinematografiche e appassionato di politica in Australia, è una domanda che continua a rimbombare nella testa di Luca fin dal suo approdo a Melbourne, nel 2012. La continua ricerca di una risposta porta Luca nei mercati, nelle università, nei giardini, nei consolati, nelle farm di galline sparsi per la città, fino ad approdare, come redattore, nella redazione del bisettimanale italiano d’Australia Il Globo, ad occuparsi principalmente di politica italiana. Nel frattempo dedica tutto il suo tempo libero a Nomit, che con molti altri ragazzi, ha contribuito a fondare e costruire sin dal maggio 2013. Un’esperienza che, è convinto, lo aiuterà a placare la sua sete di risposte.