Salari rubati: un furto all’intera società

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Negli ultimi anni, in Australia, si è sentito molto parlare di sfruttamento sul lavoro dei migranti temporanei. Ma il nuovo rapporto sul tema pubblicato questa settimana, e diffuso dai maggiori media nazionali, è la prima ricerca che prende in considerazione un campione di persone così ampio e che arrivi a raggiungere un pubblico di non soli addetti ai lavori.

Si intitola “Wage Theft in Australia” ed è stato redatto da Laurie Berg della University of Technology di Sydney e Bassina Farbenblum della UNSW, che hanno analizzato le risposte a un questionario da parte di 4.322 migranti temporanei, comprendenti soprattutto studenti internazionali e backpacker di 107 nazionalità diverse. Il continente asiatico è l’area maggiormente rappresentata (47% del campione), mentre gli italiani rappresentano il 3% dei partecipanti totali e il 6% di quelli con visto Working Holiday. Lo studio ha confermato che il cosiddetto “furto dei salari” è un fenomeno diffuso e radicato tra i lavoratori con visto temporaneo in Australia. Quasi un terzo (30%) dei partecipanti alla ricerca ha detto di essere stato pagato 12 dollari o meno all’ora, ovvero circa la metà del minimo salariale che spetta a un lavoratore ‘casual’ nei settori in cui erano impiegati, corrispondente a $22.13. Se si considera quelli che hanno guadagnato 15 dollari all’ora, la percentuale sale a quasi la metà (46%) di coloro che hanno risposto al questionario preparato dalle due ricercatrici delle università di Sydney.

I settori maggiormente toccati dallo sfruttamento sono quelli della ristorazione e quello ortofrutticolo. In quest’ultimo, in particolare, il fenomeno delle retribuzioni inadeguate assume contorni particolarmente gravi, con un terzo (31%) dei lavoratori pagato 10 dollari all’ora o meno e un lavoratore su 7 (15%) pagato addirittura 5 dollari all’ora o meno. Ma anche i dipendenti di distributori di benzina, autolavaggi, negozi e agenzie per servizi di pulizie non sono purtroppo immuni a compensi inferiori al salario minimo.

A essere sottopagati sono soprattutto studenti internazionali (in particolare coloro che lavorano in nero oltre le 20 ore settimanali previste dal loro visto) e Working Holiday Maker di tutte le nazionalità, anche se lo sfruttamento  risulta prevalente tra i migranti di origine asiatica rispetto a quelli provenienti da Paesi di lingua inglese. Infatti, se il 35-41% dei partecipanti con passaporto americano, irlandese o britannico ha dichiarato di aver guadagnato meno dei $17 all’ora corrispondenti al salario minimo, questa percentuale schizza al 75-81% per i partecipanti di nazionalità cinese, taiwanese o vietnamita. I lavoratori cinesi vengono anche pagati più spesso in contanti (il 65% contro il 26% dei partecipanti americani o britannici), una pratica largamente diffusa tra i datori di lavoro che impiegano migranti temporanei. Il 44% di loro hanno detto di essere stati pagati in contanti e per i camerieri e gli altri lavoratori del settore della ristorazione questa percentuale è addirittura del 65%. Essere retribuiti in contanti non è di per sé illegale ma può nascondere pratiche di lavoro in nero. Un timore che il rapporto sembra confermare rivelando che ben il 50% dei migranti temporanei non ha mai ricevuto buste paga e per coloro pagati 12 dollari o meno all’ora questo accade nel 74% dei casi.

Lo sfruttamento sul lavoro riguarda anche molti italiani, con oltre la metà pagata meno del salario minimo. Il 10% ha dichiarato di essere pagato meno di $10 all’ora, il 26% tra i 10 e i 12 dollari e il 16% tra i 13 e i 15 dollari.

Studenti internazionali e backpacker hanno riportato anche altri episodi di sfruttamento e condotta criminale sul posto di lavoro: 91 persone che hanno partecipato alla ricerca si sono visticonfiscare il passaporto dal loro datore di lavoro e altri 77 dal gestore dell’alloggio, 173 persone hanno dichiarato di aver dovuto pagare una somma di denaro per poter trovare un lavoro in Australia, mentre a 112 partecipanti è stato chiesto di restituire una parte del proprio salario in contanti.

Un dato sorprendente emerge dalla ricerca. Contrariamente all’assunto che i lavoratori stranieri vengano sfruttati perché non conoscono i propri diritti, lo studio di Berg e Farbenblum dimostra che la maggior parte dei migranti temporanei (il 73% degli studenti e il 78% dei Working Holiday Maker pagati 15 dollari all’ora o meno) è consapevole di essere sottopagata, ma sono convinti che poche persone con il loro visto possono aspettarsi di ricevere uno stipendio pari o superiore al minimo salariale. Berg e Farbenblum invitano il governo e altri attori nel panorama economico australiano, tra cui le università e i college per quanto riguarda la situazione allarmante degli studenti internazionali, a riflettere sui dati che emergono dal rapporto e a trovare risorse e risposte per sradicare questa ‘epidemia’.

 

Il “furto” non danneggia solo studenti e backpacker ma tutti i lavoratori

Il rapportgiovannio pubblicato martedì da Laurie Berg e Bassina Farbenblum rende pubblici dei dati che il settore commerciale non potrà ignorare. A dirlo è il dott. Giovanni Di Lieto (nella foto), docente di diritto del commercio internazionale alla Monash University e membro storico di Nomit, per cui cura l’organizzazione del Forum annuale sui diritti dei lavoratori ‘Work in Progress’. Il “furto” del titolo, sottolinea Giovanni, non si riferisce soltanto ai salari dei migranti temporanei, il cui sfruttamento è oggi un fenomeno di proporzioni preoccupanti, ma ai salari di tutti i lavoratori australiani che lavorano per le aziende che devono competere sul mercato con chi gioca non rispettando le regole. Se la globalizzazione ci ha abituati da tempo a prodotti e servizi realizzati da manodopera a basso costo in altri Paesi, la ricerca delle università di Sydney prova che ora la globalizzazione ci è arrivata in casa e che anche i prodotti e i servizi ‘made in Australia’ possono essere fatti od offerti sottopagando lavoratori migranti.

Spesso, fa notare Giovanni, c’è una forte componente di ipocrisia in questo, in quanto ad avvalersi di questa forma di ‘dumping sociale’ sono settori tradizionalmente favorevoli al protezionismo, come quello ortofrutticolo. Molti agricoltori sono contrari alle importazioni da Paesi esteri in grado di mantenere prezzi bassi grazie alla manodopera presente in loco, ma poi sono tra i primi a sottopagare i lavoratori migranti nelle campagne australiane. “A dimostrare che questa pratica sia, purtroppo, viva e vegeta – spiega il docente della Monash University – è l’attuale stagnazione dei salari nei Paesi industrializzati come l’Australia. Dopo la crisi finanziaria globale, il principio base dell’economia in base al quale quando il tasso di disoccupazione scende, i salari si alzano, si è rotto e, nonostante una diminuzione della disoccupazione, i salari rimangono fermi”.

Un fenomeno legato a doppio filo a quello dell’aumento della mobilità dei lavoratori, fuori da accordi bilaterali come spesso avveniva in passato, e a sistemi legislativi non pronti a far fronte a questi complessi spostamenti. “La speranza – conclude Di Lieto – è che, il rapporto ‘Wage Theft ’ spinga il governo a prendere seri provvedimenti, come successo nel Victoria dopo l’inchiesta dello scorso anno di Anthony Forsyth, in cui il professore della Rmit aveva puntato il dito contro il trattamento dei lavoratori interinali come ‘cittadini di seconda classe’”.

La responsabilità di denunciare non può essere lasciata solo ai singoli

Quanto mi convazzurraiene pagare il giusto i miei dipendenti piuttosto che trasgredire la legge con la possibilità di essere scoperto? E quanto mi costerebbe rimediare se mi scoprono?

Queste sono domande all’ordine del giorno per molti datori di lavoro, in un mercato in cui alcuni guadagnano grazie al mancato rispetto delle regole. “In questo scenario – spiega Maria Azzurra Tranfaglia (nella foto), ricercatrice di diritto del lavoro alla University of Melbourne e  storica responsabile per Nomit del Forum sui diritti dei lavoratori ‘Work in Progress’ -, la variabile da considerare è la possibilità di essere scoperti. Se questa viene lasciata completamente in mano ai singoli lavoratori, è improbabile che funzioni come deterrente per i datori di lavoro disonesti”. Per vari motivi, infatti, i lavoratori – in particolar modo i lavoratori migranti – sono spesso refrattari a denunciare gli sfruttamenti. Questo dipende in parte dalla paura di ritorsioni, come perdere il posto di lavoro o vedersi rifi utato un visto, ma anche dalla mentalità derivante dalla stessa condizione di temporaneità di questi lavoratori. Se si sa che si dovrà svolgere un determinato lavoro solo per un breve periodo, ad esempio mentre si gira l’Australia con lo zaino in spalla, si sarà sicuramente più propensi ad accettare di essere sottopagati o a pensare, come emerge dal rapporto di Laurie Berg e Bassina Farbenblum, che lo sfruttamento sia normale con un visto Working Holiday o di studio.

Un altro fattore potrebbe essere l’abitudine a retribuzioni inferiori nel proprio Paese d’origine che porta a considerare adeguati i salari australiani, anche quando non raggiungono il minimo salariale. È importante quindi che sia la legge a prevedere dei deterrenti efficaci per impedire ai datori di lavoro di guadagnarci sfruttando i propri dipendenti.

“Dei passi avanti in questo senso – fa notare Azzurra- sono già stati fatti con campagne mirate del Fair Work Ombudsman e il disegno di legge a difesa dei lavoratori vulnerabili (Vulnerable Workers Bill) approvato dal parlamento che ha decuplicato le sanzioni per i datori di lavoro”. “Ma le sanzioni non bastano se la probabilità di essere denunciati è pari a zero – continua la ricercatrice della Melbourne University -; è necessario che le istituzioni tengano conto di importanti studi come ‘Wage Theft ’, per capire la mentalità che impedisce alla legge di essere realmente effettiva, e mettano in atto una strategia proattiva che non agisca solo in base alle denunce dei singoli”.

(Il GLOBO, Eureka, giovedì 23 novembre 2017)