Siamo nani sulle spalle di giganti.

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Siamo come nani sulle spalle di giganti – diceva il filosofo francese Bernardo di Chartres vissuto nella prima metà del XII secolo – così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”. La visione di Bernardo aveva un’accezione fortemente positiva della società occidentale e sperava in un progresso che, grazie alla cultura di secoli che la sorregge, tendesse verso un progresso costante.

Non si può non pensare a Bernardo di Chartres quando si guarda all’Italia, alle sue eccellenze, alle sue peculiarità, ai suoi sapori, al suo modo di interpretare e reinterpretare, dalle cose più semplici alle più complesse. Un paese dalle incredibili capacità, riconosciute ed esportate in tutto il mondo, possibili solamente grazie ad una tradizione di secoli pazientemente tramandata e conservata, compresa da mani e menti sapienti, ancorché semplici, sulla strada di quel progresso culturale immaginato dal filosofo francese. Non si può capire, da dove derivi tutta questa eccellenza italiana, senza ripensare alla frase di Bernardo di Chartres, siamo “come nani sulle spalle di giganti”.

Uno dei maestri che Bernardo considerava pilastri di questa immensa costruzione culturale era, ce lo racconta il suo discepolo Giovanni di Salisbury, Marco Tullio Cicerone. Quest’ultimo, parlando egli stesso della cultura e dell’arte in particolare sosteneva che le opere d’arte non sono solo ornamenta, ma sono da considerare monumenta: non luoghi di svago e passatempo, luoghi solo di memoria, ma luoghi di costruzione della società civile, attraverso i quali non solo difendere il passato, ma costruire il futuro.

Che cosa hanno capito di tutto ciò quindi, coloro che hanno deciso di coprire le statue dei musei capitolini per la visita del premier iraniano Hassad Rohani? Ma soprattutto cosa capiamo noi da questo episodio? Capiamo quale concezione della nostra cultura e della nostra tradizione, in una parola, del nostro immenso patrimonio artistico, abbia la attuale classe dirigente italiana. Capiamo che chi governa, chi attua le scelte che ogni giorno hanno un impatto sulla vita dei cittadini italiani, non ha la minima considerazione di questo incalcolabile patrimonio culturale, la nostra più grande ricchezza, che ci ha permesso di essere quello che siamo, in ogni campo, in ogni settore.

Già come sindaco di Firenze, Matteo Renzi ha fatto ben capire a tutti coloro che avevano l’acume per coglierlo qual’è la sua visione delle ricchezze del nostro paese. Il riempirsi la bocca delle bellezze italiane, o della sua cultura, come è solito fare di continuo, è solamente un’operazione di marketing e questa affermazione, che può sembrare a molti ingiusta, o pretestuosa, non è di chi scrive, nonostante io la condivida pienamente, ma dei più importanti storici dell’arte e difensori del patrimonio culturale italiani.

La visione del titolare di questo governo è quella di un patrimonio artistico come merce, da valorizzare, come una risorsa da sfruttare, da porre sul mercato e non come strumento di costruzione della società civile, ma semplicemente oggetto da vendere, non per il bene di tutti, ma, tra l’altro al servizio, solo degli interessi di qualcuno.

Nonostante le scandalose vicende dell’affitto di Ponte Vecchio di Firenze alla Ferrari, di Piazza Pitti per il matrimonio di un magnate indiano, degli Uffizi per le sfilate di moda, nel dicembre 2013 il debito accumulato dal comune di Firenze supera i limiti del patto di Stabilità imposti dal governo Monti, così oltre ad affittare, Matteo Renzi comincia direttamente a vendere il patrimonio di tutti i cittadini italiani e non solo di quelli attuali che lo lasciano fare, badate bene, ma anche delle generazioni che verranno che magari avrebbero qualcosa da ridire, si spera, almeno loro.

Grazie alla Cassa depositi e prestiti, che si sobbarca la spesa dell’intera transazione, il teatro comunale di Firenze, un gioiello per la città, viene venduto per 23 milioni di euro, un terzo del suo prezzo ovviamente, perché non basta vendere, ma per fare cassa, bisogna addirittura svendere. E la cosa non si arresta ovviamente con Renzi, ma continua e si amplia con il suo delfino Nardella, che non solo estende le vendite di beni pubblici, ma progetta concessioni a società private per lavori nel centro storico che suscitano persino le ire dell’UNESCO. Direttamente da Parigi infatti, sede dell’organizzazione delle Nazioni Unite, arriva una lettera al sindaco Nardella per chiedere spiegazioni sulla vendita di edifici monumentali pubblici e sulla loro trasformazione in appartamenti; sul progetto di parcheggi sotterranei nel centro storico; sulla prevista linea tramviaria sotto il Duomo; e infine sul passaggio del tunnel dell’alta velocità che minaccia la fortezza cinquecentesca e l’arco dei Lorena. Ovviamente, nessuna risposta.

Ma non basta, da quando è al governo Matteo Renzi il progetto nei confronti della cultura e della conservazione del patrimonio pubblico si delinea chiaramente, nonostante i proclami. Prima con lo Sblocca Italia, quindi con le norme incluse nella Legge di Stabilità, infine con l’ultima spallata della riforma del Mibact, il Ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo di Dario Franceschini. Dalle Parole di Maria Pia Guermandi, archeologa e consigliera di Italia Nostra, la descrizione degli obiettivi di quest’ultima riforma da lei considerata “la definitiva cesura fra tutela e valorizzazione, a tutto vantaggio di quest’ultima in termini di risorse di ogni livello; la gerarchizzazione del sistema, finalizzata ad un più facile controllo politico del processo decisionale; la compressione dei residui meccanismi di controllo e monitoraggio sul territorio, tale da comprometterne radicalmente l’efficacia nel contrasto allo sfruttamento speculativo del paesaggio”. Da quelle di Salvatore Settis oggi alla guida del comitato scientifico del Louvre e già direttore della Normale di Pisa il giudizio sul decreto Sblocca Italia: “una selvaggia deregulation che capovolge la gerarchia costituzionale fra pubblico interesse e profitto privato, e imbavagliando le Soprintendenze impone agli organi di tutela la santa ubbidienza alle imprese di costruzione. Una totale deregolamentazione ai danni del paesaggio e del patrimonio culturale italiani”. Infine da quelle di Tomaso Montanari, uno degli storici dell’arte che si batte con più convinzione per la tutela dei nostri beni comuni: “è stato abrogato il comma di una legge del 2013 che permetteva al ministero dei Beni culturali di intervenire nella scelta dei beni da alienare. Ora il Mibact non ha più nemmeno diritto di parola. Di fronte a tutto questo il ministro Franceschini si sarebbe dovuto dimettere, invece non ha nemmeno protestato. Per assurdo ora gli Uffizi potrebbero essere messi in vendita senza che il ministero possa nemmeno fiatare”.

Quello in atto dunque, è un disegno politico-culturale, frutto di una modalità di pensiero che vede appunto nel patrimonio e nel paesaggio delle semplici merci da utilizzare per i propri interessi. Una visione miope e ignorante, che però spiega molto chiaramente, quanto avvenuto a Roma. L’utilizzo dei musei come luoghi di propaganda politica e non, come diceva Cicerone, luoghi di costruzione della società civile, attraverso i quali non solo difendere il passato, ma costruire il futuro. Ecco perché le statue vengono coperte, perché la magnificenza della piazza del Campidoglio serviva alla propaganda, ma le statue invece no, disturbavano la cena ai Musei Capitolini, trasformati, da luogo che dovrebbe essere – secondo la Costituzione – motore di conoscenza e strumento di uguaglianza, a ristorante di lusso per una cena privata.

Pubblicato su’ “Il Globo” del 4 febbraio.

Articolo scritto da

Nicolò Sacchi

Nicolò Sacchi

Nato a Reggio Emilia, cresciuto a Forlì, completa gli studi a Cesena in Scienze dell’Informazione e spende la maggior parte del proprio tempo e denaro viaggiando per il globo.

Dopo la laurea triennale decide di buttarsi nel mondo del lavoro e farsi le ossa. Ricopre più o meno tutti i ruoli immaginabili in informatica finchè il panorama italiano, dopo 8 anni di esperienza, non riesce più a dargli gli stimoli che cerca.Ed è così che prende la decisione di rifare per l’ennesima volta la valigia, salutare amici e parenti e trasferirsi nel continente arancione!