Un Australia sempre meno equa. La piaga dello sfruttamento degli Working Holiday Makers

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Dopo l’inchiesta dello scorso marzo condotta dal Senato federale, che ha definito quella dello sfruttamento dei lavoratori temporanei una “disgrazia nazionale”, ad abbattersi sulle tanto decantate qualità di equità e giustizia del sistema australiano è un’altro importante organo governativo, il Fair Work Ombudsman.

In una rapporto pubblicato il 6 ottobre scorso, l’ente di controllo del mondo del lavoro ha di fatto ufficializzato la diffusa e grave realtà di sfruttamento indiscriminato degli working holiday makers presente nelle aree rurali australiane. Una situazione peraltro già emersa fin dal 2014, grazie alle denuncie di Nomit sul giornale Il Globo (Eureka, Le farm degli orrori – 22 dicembre 2014, a firma di Margherita Angelucci) e rimbalzata su alcuni dei maggiori media nazionali come il The Age, Abc News ed altri.

Secondo i dati in possesso del Fair Work Ombudsman almeno il 7% della manodopera totale presente in Australia dal 2014 sarebbe rappresentata da lavoratori temporanei. Tra questi, ad oggi, più di 200mila sarebbero working holiday makers, migliaia di giovani che, da quanto risulta, vivrebbero sotto la continua minaccia di essere sfruttati dai datori di lavoro.

Una escalation che si esplicita in casi sempre più frequenti di situazioni di lavoro sottopagato o non pagato affatto, richieste di denaro da parte dei datori di lavoro per compilare i documenti necessari alla domanda di un secondo working holiday e di conseguenza, una continua soggezione dei ragazzi alle pretese del datore di lavoro, oltre che a gravi episodi di molestie sessuali e condizioni lavorative che non rispettano le norme di sicurezza.

Scorrere i numeri mette i brividi. Negli ultimi tre anni, 1 richiesta di assistenza su 8 pervenuta all’organismo di controllo è giunta da parte di un lavoratore temporaneo, di queste, almeno la metà arrivano da soggetti con un visto working holiday. Un numero esorbitante se si considera che, secondo il Fair Work, almeno il 60% dei lavoratori con questa tipologia di visto non denuncia i soprusi subiti per paura di ritorsioni da parte del datore di lavoro (66%) o perché non informato delle regole del mondo del lavoro in Australia e quindi ignaro dell’esistenza di strutture che svolgono opera di tutela e assistenza.

Almeno il 29% dei lavoratori che hanno risposto alle domande del Fair Work non ha percepito uno stipendio, di coloro che riescono a farsi retribuire per il lavoro svolto, il 28% è sottopagato, il 27% dei quali in nero. In più, ben il 6% ha dovuto pagare per avere indietro firmati i propri documenti validi ad applicare per un secondo working holiday visa. Ma lo sfruttamento comincia ancor prima della giornata lavorativa. Secondo l’inchiesta infatti può accadere che datori di lavoro, agenti intermediari e proprietari degli ostelli senza scrupoli, si mettano addirittura d’accordo non solo per sfruttare, ma anche per togliere ai ragazzi persino quei pochi soldi che riescono a mettersi in tasca. Il 14% ha dichiarato di aver dovuto pagare per avere un lavoro, di questi il 63% ha dovuto pagare un intermediario che 58 volte su 100 combaciava con il proprietario dell’ostello. Il 21% di coloro che hanno dovuto pagare un intermediario per trovare lavoro ha dichiarato di essere stato costretto a farlo contro la propria volontà, perché una parte dello stipendio gli veniva scalata prima di percepirlo. Anche nelle strutture ricettive poi, le cose non sono limpide, se è vero che ben il 31% dei ragazzi ha dichiarato che parte del suo stipendio è stato trattenuto dal datore di lavoro per l’accomodation, la quale, per legge, deve essere fornita dal farmer gratuitamente. Di questi, il 30% ha lamentato di non essere d’accordo nel farlo, ma non ha avuto modo di riavere indietro i soldi guadagnati. In questo panorama da incubo, la terra peggiore è proprio il Victoria, dove il 44% dei ragazzi si dichiara scontento dell’esperienza nelle aree rurali rispetto al 35% nazionale, il 42% denuncia di essere stato sottopagato rispetto al 28% nazionale. Infine, almeno il 65% risulta insoddisfatto delle misere condizioni delle strutture ricettive messe a sua disposizione, contro il 54% a livello nazionale. Tutta questa situazione, dice il Fair Work Ombudsman, è frutto di una concezione sbagliata che si è radicata all’interno dei datori di lavoro nelle aree rurali, per i quali, gli working holiday makers costituiscono una manodopera a basso costo facilmente sfruttabile vista la particolare condizione, che li vede privi di tutele e rappresentanze, carenti nella comprensione della lingua, poco informati sui propri diritti di lavoratori e diffidenti verso le autorità.

Ma ad aggravare questo fenomeno sono anche le speciali necessità richieste del Dipartimento dell’Immigrazione e che coloro che vogliono ottenere un secondo anno di working holiday devono presentare per fare domanda. Secondo le leggi infatti, la documentazione che attesti il lavoro svolto nelle cosiddette ‘regional areas’ deve essere firmata dai datori di lavoro. Questo sistema crea uno sbilanciamento dei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro che mette il primo in una condizione di totale soggezione al secondo, alimentando la possibilità di sfruttamento, eliminando di fatto la volontà di denuncia di pratiche illegali e annullando le possibilità di tutela e rispetto dei diritti del lavoro.

La vulnerabilità del lavoratore, che viene così a crearsi, denuncia il Fair Work Ombudsman, è anche sottoposta al pochissimo controllo da parte degli organi competenti a causa della remota collocazione delle aree in cui il lavoro viene svolto.

In seguito alla pubblicazione del rapporto, il ministro del lavoro Michaelia Cash ha annunciato la formazione di una nuova task force sui migrant worker diretta dal professor Allan Fels, con il compito di identificare proposte atte a rafforzare le leggi sul lavoro e riesaminare il working holiday program. A questa speciale commissione sono rivolte le raccomandazioni del Fair Work Ombudsman a chiusura della relazione, che contemplano innanzitutto una battente campagna informativa espressamente diretta agli working holiday makers attraverso i consolati, i community group e le organizzazioni non governative. Il Fair Work Ombudsman si propone di creare altresì una partnership diretta con il Dipartimento dell’Immigrazione, sviluppando un documento che informi sui diritti dei lavoratori in Australia da far firmare a  coloro che applicano per determinati tipologie di visto. Inoltre, la collaborazione tra i due enti governativi dovrebbe portare anche ad una revisione della documentazione richiesta per accedere al secondo working holiday visa e sviluppare una sorta di incentivo per favorire la denuncia di situazioni di sfruttamento. A questi ultimi due obiettivi dovrebbe essere legata anche una ulteriore cooperazione con l’Australian Taxation Office, per rafforzare il controllo sui datori di lavoro e assicurare che i comportamenti illegali vengano sanzionati più pesantemente e con maggiore decisione. In più, finalmente, si propone la creazione di un registro dei datori di lavoro qualificati ad emettere la documentazione richiesta per un secondo working holiday visa. Coloro che saranno inclusi nell’elenco dovranno rispondere a determinate caratteristiche e saranno sottoposti a stretti controlli, divenendo quindi gli unici soggetti con cui i lavoratori che decidono di svolgere l’esperienza nelle aree rurali richiesta dal dipartimento dell’Immigrazione, dovranno relazionarsi.

Luca M. Esposito

(IL GLOBO, Eureka, 27 ottobre 2016)