Una luce su un mondo del lavoro sempre più oscuro

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Come la miopia sui diritti e le tutele dei lavoratori temporanei potrebbe avere un impatto negativo sull’intero sistema economico e sociale australiano

 

Nell’inchiesta del Fair Work Ombudsman pubblicata il 6 ottobre, emergono, oltre agli sconcertanti dati sullo sfruttamento degli working holiday makers, alcune osservazioni che ampliano lo sguardo sulle connessioni tra politiche migratorie e mondo del lavoro.

Lungi dall’essere utilizzato nella sua originale accezione di scambio culturale, il programma working holiday ha assunto le sembianze di un vero e proprio sistema incardinato sulla mobilità di manodopera. Da una parte, la crisi economica nei paesi europei e le difficoltà di alcuni paesi asiatici, ha indotto un crescente numero di giovani a guardare all’Australia in cerca di opportunità, lavoro ed esperienze, aspirando anche alla residenza permanente. Dall’altra, la costante mancanza di manodopera nelle aree rurali, ha necessitato di un continuo impiego dei lavoratori con il working holiday visa, favorito anche dalla richiesta di 88 giorni di lavoro in farm per accedere ad un secondo anno di visto.

Questa realtà ha portato gli working holiday a diventare non solo una fonte di manodopera indispensabile per determinati settori produttivi, ma anche una risorsa per l’intero indotto di imprese, strutture ricettive, agenzie del lavoro, dell’immigrazione e industria del turismo, portando grandi benefici all’intero sistema economico australiano. In questo contesto sembrano dunque ancora più gravi le denuncie del Fair Work Ombudsman sullo sfruttamento dei lavoratori temporanei, considerando anche il sempre più difficile reclutamento, in queste aree e settori, di manodopera locale.

A sottolineare quanto gli working holiday makers siano importanti per l’economia delle aree rurali australiane, sono anche le recenti pressioni che il partito dei Nationals ha esercitato contro l’aumento della tassazione per questa tipologia di lavoratori, prospettata dal governo Abbot. Ovviamente, la preoccupazione dei Nationals non era che dei soggetti socialmente deboli fossero sottoposti ad una tassazione iniqua, ma che questa potesse diventare un deterrente per i giovani stranieri dal venire in Australia con il working holiday, creando una immediata carenza di manodopera a basso costo, come, secondo il Fair Work, viene considerata questa fascia di lavoratori dai farmer australiani nelle aree rurali. Risultati vincitori nel braccio di ferro interno alla Coalizione, i rappresentanti del settore agricolo, hanno, in collaborazione con l’industria del turismo, presentato poi una serie di richieste al governo per implementare questo flusso di lavoratori considerati essenziali. Da parte sua l’esecutivo di Camberra, lungi dal notare l’incongruenza del fatto che le ricette per il miglioramento del working holiday program fossero prescritte dagli sfruttatori dei lavoratori stessi, ha dato seguito ai suggerimenti presentati dai settori agricolo e turistico delle aree rurali. Il governo ha quindi pensato di innalzare a 35 anni l’età per accedere al visto, in contraddizione con i principi di esperienza rivolta ai più giovani; abbassare il costo del visto stesso, ma innalzare la tassazione in uscita e bloccare il recupero dell’intero importo della superannuation quando si lascia il paese, in un cinico ragionamento di dare all’entrata, per incentivare l’ingresso di lavoratori e togliere poi quello che si è dato sulla porta d’uscita; eliminare la limitazione che impediva di poter lavorare per più di 6 mesi con lo stesso datore di lavoro, trasformando praticamente il visto in un ‘working and working’, con buona pace dello scambio culturale. Non ancora inserita da Camberra poi, ma richiesta dal settore turistico, è la trovata per eliminare la dipendenza del lavoratore dal datore di lavoro, creata dall’attestazione della documentazione richiesta per accedere al secondo anno di working holiday. Secondo i proprietari delle strutture ricettive infatti il governo dovrebbe affidare a loro, e non ai datori di lavoro, la certificazione dei documenti per il visto, scordandosi che proprio nell’inchiesta del Fair Work Ombudsman emerga come il 14% dei lavoratori intervistati abbia dichiarato di aver dovuto pagare per avere un lavoro e di come, tra questi, il 63% sia stato costretto ad utilizzare un intermediario, che 58 volte su 100 combaciava con il proprietario dell’ostello. Insomma, dalla padella nella brace.

Dopo la splendida immagine dei datori di lavoro delle aree rurali che traspare dall’inchiesta del Fair Work Ombudsman quindi, il governo ha pensato bene di accontentare quasi tutte le loro richieste, ben guardandosi dal prendere invece seri provvedimenti contro lo sfruttamento e affrontare più in generale il crescente problema dei lavoratori temporanei in Australia.

La mancanza di volontà delle Istituzioni nel risolvere la questione evidenzia una miopia che, se si considerano anche la situazione dell’hospitality, dei vincoli legati alle sponsorship e quello degli student visa fasulli, sta provocando un vero e proprio buco nero nel sistema del mondo del lavoro in Australia.  Una tendenza, tra l’altro, molto diffusa anche nel resto dei paesi sviluppati in generale (vedi articolo di Giovanni Di Lieto su The Conversation del 20 settembre 2016). Ma ciò che stupisce di più è la poca lungimiranza dimostrata dalla classe dirigente, incapace di vedere come il danno più grave, con questo sistema distorto, si riverberi non solamente sulle centinaia di migliaia di lavoratori temporanei, defraudati di diritti e tutele proprie di una società equa e democratica, ma anche sul futuro benessere dell’intero sistema economico e sociale australiano (vedi Peter Mares, Not quite Australian, 2016).

Gli effetti più pesanti di questa miopia forse, non sono ancora visibili per la mggioranza della popolazione, ma faranno la loro pesante comparsa presto, con il rischio, se si continua su questo binario, di produrre un’economia e un mercato del lavoro completamente alla mercé della speculazione, della concorrenza sleale, della corsa al ribasso e della disuguaglianza.

Uno dei valori e dei pilastri che sorreggono la buona risposta dell’economia australiana alla crisi internazionale, sta infatti proprio nella tutela dei salari e dei diritti dei lavoratori che, insieme allo stretto controllo sull’osservanza delle regole ed efficaci politiche di welfare, hanno permesso alla classe media di non essere schiacciata verso il basso, favorendo un’equa redistribuzione del reddito e il contrasto delle disuguaglianze sociali. Proprio questi punti determinanti sono anche la ricetta per un buon funzionamento dell’economia su cui insistono i più moderni studi del settore, come quello del premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz (vedi Joseph Stiglitz, Le nuove regole dell’economia, 2016).

L’onda d’urto che potrebbe svilupparsi sul sistema australiano per la situazione delineata dal Fair Work Ombudsman rischia, a lungo andare, di provocare una generalizzata spirale al ribasso per gli stipendi delle nuove generazioni di australiani, i quali si troverebbero a dover competere con una categoria di lavoratori temporanei priva di tutele e protezioni, e quindi fragile e sottopagata. Questa fragilità potrebbe diventare contagiosa, diffondendosi rapidamente e andando ad intaccare soprattutto i redditi della classe media, trascinandola verso il basso. Per bloccare questa escalation, vista la carenza di lavoratori in determinati settori, non è pensabile, come vorrebbe qualcuno, limitare gli ingressi nel Paese di una manodopera essenziale per fasce produttive importanti, per i quali, infatti, il governo ha ampliato i requisiti di accesso. L’unico modo efficace per evitare una degenerazione delle condizioni del mercato del lavoro, resta quindi di adottare politiche che favoriscano la tutela dei diritti dei lavoratori temporanei, riducendone lo sfruttamento. Con questa accortezza inoltre, si limiterebbe anche il vortice di concorrenza sleale tra le aziende che un tale sistema finisce per favorire. Un’impresa che si avvale di lavoratori sottopagati, o retribuiti in nero, ha infatti un netto vantaggio sul costo del lavoro nei confronti di quelle che invece rispettano i termini imposti dalla legge. Ciò crea un mercato distorto che porta alla predominanza di soggetti che operano in contrasto con le regole in settori determinanti, come quelli della produzione di beni alimentari, dell’hospitality, del turismo e delle costruzioni, danneggiando l’intera società.

Ampliare e rafforzare il raggio d’azione del Fair Work Ombudsman diventa dunque un elemento essenziale per preservare nella sua interezza il buon andamento dell’economia australiana, ma parallelamente appare impellente anche sviluppare una serie di politiche che regolino in modo più efficace la gestione dei lavoratori temporanei, facendo in modo che non diventino una categoria preda di approfittatori senza scrupoli, distorcendo l’intero mercato del lavoro. Solo così l’Australia potrà compiere una svolta importante, non solo per la propria stabilità sociale interna, ma anche divenendo leader in un panorama globalizzato che non può più prescindere dall’affrontare la questione della mobilità dei lavoratori su scala transnazionale. Vincere questa sfida potrebbe portare l’Australia a diventare un faro su un mondo del lavoro che si va, via, via, sempre più oscurando.

Luca M. Esposito