Dopo dodici anni di attesa, si sono tenuti nelle scorse settimane gli incontri preparatori per la IV Conferenza Permanente Stato-Regioni-Province Autonome-Cgie, che per legge dovrebbe essere convocata ogni 3 anni e che è stata istituita per definire le politiche rivolte alle comunità all’estero da parte dello Stato italiano, ma anche per creare una sinergia tra i maggiori organismi istituzionali.
Tutti elementi, questi, di cui si è sofferta molto l’assenza negli ultimi anni, proprio mentre la composizione dell’emigrazione italiana cambiava drasticamente e le iscrizioni all’Aire passavano da circa 3 a quasi 6 milioni.
E quanto per colmare il vuoto, in termini di politiche rivolte alla nuova emigrazione, ci sia bisogno di uno scatto in avanti da parte delle istituzioni, è emerso in modo palese anche nel dibattito durante la Conferenza. Concentrati su considerazioni generiche o personali, o su dati e numeri dell’emigrazione che ormai dovrebbero essere dati per acquisiti, nessuno dei numerosissimi interventi di politici e addetti ai lavori delle prime due ore ha toccato i temi davvero rilevanti che riguardano la nuova emigrazione sul piano sociale e su quello dei diritti. E ciò, nonostante le sollecitazioni di personalità di altissimo livello che conoscono a fondo la questione, tra gli altri quelli della direttrice del Centro AltreItalie, Maddalena Tirabassi, o della responsabile del Rapporto Italiani nel Mondo di Migrantes, Delfina Licata, che hanno provato, come fanno da anni, a fornire elementi utili alle istituzioni per inquadrare il fenomeno in maniera più articolata.
C’è da dire poi che non ha aiutato, purtroppo, neanche l’intervento dell’unico rappresentante della nuova emigrazione, al quale dopo due ore di dibattito viene concessa la parola in quanto membro del gruppo di giovani uniti dalla Conferenza di Palermo del 2019, ma che non ha avuto niente di meglio da aggiungere se non “sottolineare l’importanza e il ruolo degli organi di rappresentanza come Cgie, Commissione Estero, Comites che, – ha detto – lavorano sputando sangue e lacrime e troppo spesso senza fondi”. Nelle sue parole non c’è un accenno al problema dello sfruttamento dei lavoratori italiani emigranti o a quello dell’assistenza al percorso migratorio e alla mobilità circolare, al tema della difficile relazione con le istituzioni o della complessità profonda nel rapporto tra gli organismi di rappresentanza e i nuovi emigrati. Niente.
Davvero un’occasione persa per rimettere al centro quelle questioni cruciali che sono rimaste fino a quel momento fuori dal dibattito e che restano marginali finché, a colmare il vuoto, non ci pensano finalmente il consigliere Cgie in Olanda, Andrea Mantione e il responsabile estero del patronato Inas, Gianluca Lodetti. Va a loro il merito, proprio nelle battute finali, di aver messo a fuoco con grande efficacia i temi su cui si giocherà il futuro delle nostre comunità all’estero e il loro rapporto con le istituzioni e la politica.
“Dopo ore a parlare di laureati, – dice Mantione – se permettete vorrei parlare di lavapiatti” e “della situazione di precarietà sul lavoro” che soffrono i nuovi italiani all’estero, vittime di “sfruttamento” spesso proprio per mano di loro connazionali. E’ qui, spiega Mantione, che le istituzioni devono intervenire, e presto. Anche perché, ha aggiunto Lodetti, dopo l’interruzione forzata dalla pandemia, “la prospettiva è che tra tre o quattro anni ricominceranno con ancora più forza i flussi verso l’estero”. I problemi “di precarizzazione molto spinta, saranno dunque persino acuiti”, aggiunge, e quindi è importante “arrivare presto ad una politica di servizi che includa sia la prepartenza, sia l’orientamento anche nei Paesi esteri, con servizi di informazione sul lavoro e infine i servizi di rientro”.
Ecco, è da questi punti che la politica e le istituzioni devono ripartire e devono farlo in fretta. Perché siamo già in ritardo, almeno di 12 anni.